Fra crudeltà e redenzione: L’ultima notte di Amore di Andrea Di Stefano

Woody Haut nel suo saggio Neon Noir ci ricorda che: “per esaminare una cultura bisogna soltanto investigarne i crimini”.  E andare alla scoperta di chi, anche inconsapevolmente, è votato alla dannazione. Vedendo Escobar e soprattutto The Informer – Tre secondi per sopravvivere si poteva già comprendere che Andrea Di Stefano padroneggia molto bene il genere, soprattutto sa dove piazzare la macchina da presa durante l’azione. Ora fa un altro passo: con L’ultima notte di Amore si cimenta con il noir metropolitano, venato di poliziottesco. Bordeggia anche una certa estetica del perdente, come in ogni noir che si rispetti c’è quel sostrato di malinconia necessario, quella predilezione del protagonista a rimanere in disparte, riparato, finché la vicenda non diviene una pura questione di sopravvivenza. E i primi minuti sono un manifesto programmatico: lunghe riprese notturne dei tetti di Milano, dal centro alla periferia e ritorna, fino a un appartamento dove c’è una festa. Qui la macchina da presa scende ed entra in casa. Tutti sono in attesa di festeggiare Franco Amore (un perfetto Pierfrancesco Favino che lavora di sottrazione) all’ultimo giorno di lavoro dopo 35 anni di commissariato, passati senza sparare un colpo, con la fama di essere onesto e affidabile. Franco è in tuta e sta correndo verso casa. Qualcosa è successo. Chi andrebbe a correre la sera dell’ultimo giorno di lavoro, conscio di avere una festa (a sorpresa) che l’aspetta? Di Stefano applica alla storia la “focalizzazione esterna” (per intendersi: alla Dashiell Hammett).

 

 

Vediamo agire il personaggio, ma solo lui è cosciente di ciò che accade. Per conoscere le sue motivazioni dovremo attendere che ce le spieghi o che i fatti ci consentano di capirle o di dedurle. Questa tecnica crea suspense, perché lo spettatore continua a interrogarsi su ciò che si sta svolgendo davanti ai suoi occhi. Pian piano comprendiamo che Amore si è infilato in un bel guaio, che c’entra la montante mafia cinese, il contrabbando di diamanti e un “lavoro” andato male…Alla fine il dilemma sarà (giustamente) molto sentimentale: far quadrare l’amore per la moglie (un’elettrica Linda Caridi) e la figlia che studia all’estero, con la lealtà alla divisa e al collega che è stato al suo fianco per molti anni e che ora è steso su uno svincolo della tangenziale crivellato di colpi. Amore viene chiamato sulla scena del crimine e il film decolla. Quando la macchina da presa è sull’asfalto Di Stefano non spreca un’inquadratura: è lucido, crudele, martellante come un’ossessione. Evidente l’intento di portare alle estreme conseguenze lo stile ipercinetico e maniacale che gli permette di indagare le contraddizioni e le condizioni della società che descrive, per misurare la temperatura di una cultura, analizzando il rapporto fra crimine privato e quello pubblico, di Stato. Per questo gli sbirri corrotti, per questo l’escalation della forza esibita. Una cultura della violenza stimolata dai dettami dell’ipercapitalismo sfrenato del libero mercato, una cultura nella quale la cupidigia e le ossessioni per il potere, per il controllo sono gli ingredienti essenziali. I destini sono governati da precise leggi tragiche: il tradimento e la nemesi, l’amicizia immersa nel sangue e la redenzione. Una magniloquenza tematica cui fa riscontro però uno sguardo scarno, ritmato, apparentemente essenziale. Un equilibrio miracoloso raggiunto anche grazie alla colonna sonora di Santi Pulvirenti con basso in libera uscita, evidenti richiami a Ennio Morricone, Stelvio Cipriani e pure Franco Micalizzi.