Gloria e vita alla nuova carne: The Ugly Stepsister, Emilie Blichfeldt rilegge Cenerentola

È tutto specchio, specchio delle mie brame,
perché la bellezza è potere,
proprio come il denaro è potere,
proprio come una pistola è potere.
Chuck Palahniuk – Invisible Monsters

 

In tempi di crescenti deep fake e fotorealismo digitale – emanazioni di un esercizio di Intelligenza Artificiale sempre più ossessionato dal corpo, come se la riproduzione del dispositivo umano sia l’ultima frontiera da superare per una sostituzione integrale del virtuale sull’analogico – il cinema horror contemporaneo sembra aver trovato, da un paio d’anni a questa parte, la forza di rispondere avocando a sé un ruolo artistico e sociale che da tempo non riusciva a reclamare. E lo fa, indipendentemente dalle appartenenze geografiche e culturali, riscoprendo gli artigli, le mutazioni, gli innesti, le sintesi di biologico e macchinico, le suppurazioni e le ferite, il riboccare dei fluidi, lo spezzare e il livellare e il riplasmare di ossa e tessuti e cartilagine. Cinema come specchio delle mie brame, per un umano troppo umano i cui desideri, ossessioni e colpe tornano a esondare, smarginare, recuperando terreno visivo e discorsivo a colpi di sangue e trucchi prostetici. Ciò che accomuna i tre body horror del momento – The Substance, Together e quest’ultimo The Ugly Stepsister –, e che rende il loro ritorno al genere così efficace e pertinente, e strettamente contemporaneo, è soprattutto il rapporto che ogni film instaura tra la carne e la sua immagine, un’intessitura stretta che da sempre appartiene ai corpi su schermo (dal divismo anni Venti agli hard e soft bodies degli anni Ottanta) ma che oggi l’iperconnessione digitale dei social media ha inacerbato e rilanciato con una portata sociale assai più vasta.

 

 
Se nel corso del Novecento era il grande schermo il detentore assoluto della possibilità di fare del proprio corpo immagine, oggi questa capacità si è universalizzata: ogni performance fisica da perfezionare, ogni ideale sintesi di coppia da raggiungere, ogni status da conquistare, si manifesta e conclama non con l’esposizione del corpo ma della sua rappresentazione, in un rapporto dialettico per cui il primo si riversa nella seconda e viceversa – ed è qui che l’IA ancora annaspa e rincorre, perché il digitale assoluto rompe l’equazione, mentre il successo dell’odierno body horror ci comunica anzitutto un bisogno scopico di corpi ancora non soddisfatto, un desiderio vivo di nutrirci di immagini che abbiano ancora la carne come referente, nonostante i rapporti di forza tra piano fisico e rappresentativo siano pressoché invertiti e un corpo senza immagini sia come l’albero che cade nella foresta in cui non c’è nessuno a sentire. E dove il film di Michael Shanks, Together, declina il discorso in termini sentimentali e di coppia, sia la Coralie Fargeat di The Substance che Emilie Blichfeldt (qui regista e sceneggiatrice, autrice completa di un esordio sorprendente) esaltano la dimensione pubblica del corpo, la sua messa in scena mostrativa, con opere figlie di una sfera discorsiva social che negli ultimi anni sembra aver dismesso i suoi obiettivi di body positivity a favore dell’euforia da Ozempic, il farmaco antidiabetico che per il suo inaspettato effetto dimagrante è assurto a nuovo standard di pillola magica. Ed è proprio di Ozempic, di ossessione di ritorno per una nuova carne che sia immagine perfezionata di sé, da esibire in agorà pubbliche e sociali, televisive e digitali, che parla The Ugly Stepsister, una riscrittura di Cenerentola che nuovamente nella fiaba (la bella e la strega di The Substance) trova gli elementi ideali per una messa alla berlina del sistema patriarcale e annessa oggettificazione maschilista del corpo-immagine femminile.

 

 
Ogni donna presente in The Ugly Stepsister – che sia la madre vedova Rebekka, la piccola Alma che rifugge la maturità sessuale riscrivendosi le coordinate di genere, la splendida e comunque tragica Agnes, o lei, Elvira, tanto goffa e malinconica quanto determinata nel suo desiderio, e comunque vittima assoluta – è rappresentazione icastica di un sistema sociale plasmato dal male gaze, dal predominio del maschile, tale per cui ciascuna di loro è costretta a spendere pezzi di sé, figurati e non, pur di divenire figura accettata e funzionante della società. È in particolare Elvira, l’orribile sorellastra, a intraprendere un percorso di ridefinizione e perfezionamento di sé che non risparmia alcun orrore. Oppressa di secondo livello – dall’ossessione tutta contemporanea per la resa performante dalla massima efficienza, e dal patriarcato all’interno del quale tale compulsione asfittica si manifesta – non c’è limite per lei all’autodistruzione e all’umiliazione profonda quando l’obiettivo da raggiungere è l’immagine perfetta, il debutto in società che tutto giustifica e fa dimenticare. In tal senso Blichfeldt è bravissima nell’intessere una rete di rapporti e rappresentazioni nella quale si è contemporaneamente vittime e carnefici, di sé e dell’altra, avendo introiettato il sistema valoriale che è causa prima dello schiacciamento. Per chi dovrebbe “tifare” lo spettatore, in questa guerra tra oppresse, quando sentiamo le sofferenze di Elvira, e la sua cattiveria, e le riconosciamo come nostre? Quando riconosciamo familiare l’odio per il privilegio suscitato da Agnes e la sua bellezza perfetta, immutata, immeritata? Ecco allora un film veramente intersezionale, degno rappresentante delle lotte di oggi perché in grado di tenere assieme i piani del conflitto di genere e di classe, male gaze e privilegio, sorretti e rilanciati da un’estetica ultramoderna che rifugge il realismo e abbraccia il camp, sberleffa l’art house elevated e sposa l’aggressività dello zoom, e il rosa, e l’evanescenza di abiti che appena contengono la putrescenza delle carni, delle mosche, dei vermi animali e umani. La gabbia dorata della prima Sofia Coppola, ma irriverente, beffarda, intrisa di Borowczyk e steampunk. Un esordio che toglie il fiato, e fa sì gridare: gloria e vita alla nuova carne!