Nick, un giovane affetto da disturbi mentali, si sta sottoponendo a una seduta di terapia cognitiva. Improvvisamente irrompe nella stanza suo fratello Connie (Robert Pattinson), che lo strappa al medico vedendo il disagio del ragazzo. Protettivo, amorevole, attento, o così sembra. Infatti, nella scena successiva, troviamo i due fratelli in banca mentre compiono una rapina silenziosa, dove tutto sembra filare liscio. Ma quando iniziano a scappare, convinti di avercela fatta e di poter lasciare la città in cerca di un idillico sogno agreste, iniziano i problemi, che da lì in poi non si fermano mai. Dopo le prime scene, nervose ma statiche, come delle macchine che rombano i motori prima della partenza di una gara, Good Time di Benny e Josh Safdie–che al loro quarto film approdano al concorso di Cannes dopo essere passati alla Quinzaine, giovanissimi, nel 2009 – mette in moto e,senza mai rallentare, inizia una corsa frenetica destinata a schiantarsi alla sua naturale e ovvia conclusione. Connie ha lo sguardo iniettato di sangue, si muove in maniera ipercinetica, affronta i pasticci che involontariamente compie con mosse sempre più azzardate. La fuga dei due fratelli dura poco: Nick finisce in carcere, dove viene pestato, e poi in ospedale, da dove Connie cerca di tirarlo fuori. Scambi di persona, bottigliette piene di acido, malavita difettosa, deboli figure femminili disposte a dare soldi in cambio di un’ipotesi di amore, cani feroci: gli errori si ammassano, i raccordi narrativi quasi scompaiono, l’atmosfera da pulp metropolitano prova a sopperire con lo stile a una voluta e ostentata mancanza di credibilità del racconto.
Good Times, nel suo concatenarsi di eventi immersi in una notte senza fine, guarda a modelli altissimi – lo Scorsese di Fuori Orario, Collateral di Mann – senza riuscire neanche vagamente ad avvicinarcisi e pecca di un’orgogliosa vanità. La New York crepuscolare e sempre più lunare si tinge di elementi noir senza mai cogliere un’emozione, senza appassionare, lasciando che la nuda meccanica degli avvenimenti, dei fraintendimenti, delle botte date e prese, si sviluppi in maniera automatica e ripetitiva. Non c’è (non ci vuole essere) coerenza, ma solo un inseguirsi di fatti che rimbalzano come in un implacabile loop. L’amore che muove le azioni di Connie èanimato da un affetto fraterno che però perde consistenza:non c’è psicologia, va bene, ma neanche un abbozzo di costruzione dei personaggi. Il lavoro sulle musiche, composte da Oneohtrix Point Never, musicista elettronico di Brooklyn, danno al film un’aria allucinata che si limita ad essere una patina di vernice su un lavoro piuttosto informe. La sensazione è che i fratelli Safdie – che si dividono anche i ruoli di montatore, sceneggiatore, attore – vogliano farci credere di avere molte cose da dire, ma in fondo non sappiano neanche loro che direzione dare al film. Una direzione che pare risolversi in una semplice e muscolare velocità, nevrotica e fine e se stessa.Questo è un cinema di pura energia, che purtroppo si riduce a una sequenza di movimenti vettoriali, una freccia incompiuta fatta di immagini. Il talento visivo, evidente nel controllo degli autori su un 35mm sporco e illuminato in maniera insieme concreta e antirealistica, non evita la sensazione di superficiale gratuità dell’intera macchina filmica.Good Time insegue i protagonisti per le strade, li immerge in case squallide, fetidi fast food e parchi dei divertimenti chiusi, resta attaccato ai volti e alle figure(l’uso allucinato dei primi e primissimi piani) affetto da un’ansia da prestazione continua che di colpo letteralmente si sgonfia, per chiudersi come si era aperto, con un rallentamento repentino. Il gusto che lasciaè quello dell’ottovolante: quando ci sei sopra ti puoi anche divertire ma, una volta sceso, ti riprometti di non salirci più.