Vincitore del Premio della giuria «Un Certain Regard» al Festival di Cannes 2021 e selezionato per rappresentare l’Austria agli Oscar 2022 nella sezione del miglior film internazionale, Große Freiheit (titolo internazionale Great Freedom, 2021), diretto da Sebastian Meise, che lo ha scritto insieme a Thomas Reider, è un film delicato e allo stesso tempo spietato come lo sanno essere solo i film in cui la storia prende forma attraverso emozioni che si sanno fare corpo grazie non solo alla sceneggiatura e alla regia, ma anche grazie alla capacità degli attori di incarnarle, ovvero letteralmente di farle diventare carne, sudore, sangue, saliva, sperma, escrementi, e insieme azioni, pulsioni, coazioni, pensieri, scelte, perdite di coscienza ecc. Franz Rogowski e Georg Friedrich, nel ruolo dei protagonisti Hans Hoffmann e Viktor Kohl, sono tutto questo e anche qualcosa in più, dando alla storia un senso supplementare che Roland Barthes avrebbe definito un «senso ottuso», gratuito, nebuloso, non necessario ma necessitato da dettagli mai del tutto componibili in un insieme organico, surrettizio ma più potente di tutti gli altri nel fornire una chiave di lettura dell’intero racconto. Nel 2021 Rogowski ha vinto per la sua interpretazione il premio come Miglior attore al Torino Film Festival ed è stato candidato agli European Film Awards.
Il senso acuto (leggasi denotativo) della storia è quello che racconta i ventiquattro anni, tra il 1945 e il 1969, in cui Hans e Viktor si incontrano tre volte in un carcere della Germania Ovest: condannato all’ergastolo per un reato mai spiegato, Viktor è già lì quando Hans, in precedenza deportato in un lager dai nazisti in quanto ebreo omosessuale, viene messo nella sua cella a scontare gli ultimi mesi di reclusione per violazione del paragrafo 175 del codice penale tedesco, che vieta proprio i rapporti omosessuali; i due si incontrano di nuovo nel 1959, quando Hans viene imprigionato nuovamente per lo stesso reato insieme al suo compagno Oskar (Thomas Prenn), e infine nel 1968, quando per l’ultima volta Hans viene imprigionato per avere avuto rapporti sessuali con uomini nei bagni pubblici della città; nel 1969, poco dopo l’abolizione del paragrafo 175, Hans esce definitivamente di prigione. Dunque Meise descrive l’oppressione degli omosessuali in Germania (che, ricordiamolo, è il primo paese ad aver dato alla luce un movimento di liberazione omosessuale a cavallo tra Otto e Novecento, poi stroncato dal Nazismo) fino agli anni della rivoluzione sessuale attraverso un racconto che ha il tono crudo del documento e il sapore amaro del referto, costruito come un labirinto temporale in cui, quasi attraverso dei loop, si passa in ordine sparso dal 1968 al 1959 al 1945.
Il senso ottuso (leggasi connotativo) della storia è quello che racconta l’incontro tra due uomini che attraverso dettagli allo stesso tempo fugaci ma intensissimi arrivano a toccarsi reciprocamente in profondità: nel 1945 Viktor, dapprima sprezzante verso l’orientamento sessuale di Hans, gli fa un tatuaggio per coprire la matricola del lager impressagli sul braccio dai nazisti; nel 1959 lo soccorre davanti a tutti nel cortile della prigione quando crolla emotivamente dopo avere saputo della morte di Oskar; in entrambi i casi Viktor viene punito con l’isolamento per questi gesti “gratuiti”; nel 1968 Hans aiuta Viktor a disintossicarsi dall’eroina accudendolo durante la fase lacerante delle crisi di astinenza e qui tra di loro nasce un’intimità sessuale, preceduta solo dal un rapporto orale nel 1959, esposto come pegno in uno scambio di favori. Il picco dell’ottusità, che si traduce in una magnifica irresolutezza e apertura, promessa di sviluppi ignoti su cui lo spettatore può solo formulare delle congetture, è nel finale, quando Hans, raggiunta la grande libertà adombrata dal titolo del film, esce di prigione, va in un locale gay e, nei sotterranei, ha un rapporto occasionale con uno sconosciuto; uscito dal locale infrange la vetrina di una gioielleria, si mette dei gioielli in tasca e si siede a fumare lì davanti… È un gesto di sfregio verso un mondo in cui il sesso gay, che non ha mai smesso di essere oppresso, è stato spostato dalla cella al sotterraneo? Di lì a poco scapperà? Aspetterà di essere arrestato per tornare in prigione dal suo Viktor? Non lo sappiamo. Tutto quello che sappiamo mentre scorrono i titoli di coda è che credevamo di vedere un film carcerario e invece abbiamo visto un film d’amore. Amore nella sua forma più primitiva di lotta, soccorso e infine indispensabilità.