House of Gucci di Ridley Scott, un “Gaga movie” che se ne frega di tutto

Finiti i fasti dei Vanzina e di Boldi & De Sica, Sir Ridley Scott fa saltare il banco, si fa per dire, del box office natalizio con un cinepanettone pensato per il pubblico internazionale e ambientato in Italia (nel ricco menu c’è anche una parentesi di vacanze di lusso e tradimento coniugale sulla neve a Gressoney, anche se i Gucci le ville le avevano a Sankt Moritz). Più precisamente House of Gucci si potrebbe definire una farsa in costume, nel senso letterale di genere comico della tradizione. Anche se, della farsa, manca la brevità, a questo spettacolone di 157 minuti, sopra le righe dalla prima all’ultima inquadratura. Dopo aver involontariamente sfiorato il genere nel dimenticabile Tutti i soldi del mondo (anche per via della scellerata “cancellazione” di Kevin Spacey), il Noto Autore di Successoni Epocali torna a prodursi in una caratterizzazione intenzionalmente stereotipata del Belpaese e dà una lettura sgangherata, opinabile e caricaturale dei fatti che, dal suo incontro con Patrizia Reggiani, nel 1970, portarono all’omicidio di Maurizio Gucci, il 27 marzo 1995.

 

 

La carnevalata familiare è scoperta, esibita, ripetuta ad libitum, tra vette camp e momenti grotteschi, talmente esagerata che strappa qualche risata ma poi sfinisce per abuso del meccanismo tragicomico. Ispirato a House of Gucci. Una storia vera di moda, avidità, crimine di Sara Gay Forden, uscito nel 2000, l’inchiesta è subito adocchiata da Giannina Facio, moglie di Scott, ma per vent’anni non se ne fa niente. Alla sceneggiatura, non proprio come prime scelte, Becky Johnston (Il principe delle maree, Sette anni in Tibet) e al suo debutto Roberto Bentivegna (che a “Repubblica” ha dichiarato “Del Padrino c’è la struttura, la saga famigliare. Ho giocato con i luoghi comuni sugli italiani: il senso della famiglia, il tradimento. I Gucci sono di Firenze, ho pensato alla tradizione delle famiglie toscane che si ammazzano tra di loro, ai Borgia. Ma con il tono di Quei bravi ragazzi”. Non male, come modelli, dài). Risultato: il film mescola sfacciatamente temi e personaggi da opera italiana con la soap opera statunitense. Racconta (dovrebbe raccontare) una vicenda di cronaca nera, estremamente documentata, ma se ne strabatte della verosimiglianza, così come della costruzione di una pista thriller che porti all’omicidio. E allora chi se ne frega se negli anni ’70 Driver legge un quotidiano che deve ancora essere concepito (“Il Foglio”).

 

 

Se sempre negli stessi anni si pranza all’aperto grazie a una di quelle stufe per esterni arrivate solo in anni recenti. Se Maurizio Gucci il giorno della morte inforca la sua bicicletta a Milano e ne scende nell’inquadratura successiva davanti a un palazzo romano. Se il padre di Maurizio, Rodolfo Gucci (Jeremy Irons, che si circonda da code di pellicole come una Gloria Swanson de noantri), già attore col nome di Maurizio D’Ancora, dice aver recitato in un film che non ha mai fatto (Treno popolare). Se vive nella Villa Necchi Campiglio, allora privata (e in cui è stato ambientato Io sono l’amore: omaggio o presa in giro di Guadagnino?). L’importante è parlare d’altro per parlare di status symbol, e se c’è tempo, sistemare a favore di camera una birra italiana con la stessa disinvoltura con cui Woody Allen in To Rome With Love piazzava salumi nostrani e altri marchi tricolori. In un trionfo di piazzamento del prodotto fuori da ogni logica temporale (le tute dell’A.S. Roma, messe lì per essere citate nelle recensioni) e di ripasso dei pezzi iconici dell’archivio della casa (c’è pure spazio per mocassini su misura, con foglia d’oro extra), il lusso è l’unico, ultimo fine, o almeno, l’illusione di possederlo. Anche se è contraffatto, come deduciamo da un’illuminante scena tra Patrizia e la sua domestica a New York, già pronta all’uso per la didattica negli istituti di moda milanesi.  E però Scott, ça va sans dire, sa trarne un prodotto d’intrattenimento, non elegante come le linee sartoriali di quegli anni ma volgare come i tempi che viviamo: una serie ininterrotta di scene madri e hit “da sfilata” per pompare vita e sangue fresco in sequenze pensate per piacere a ogni latitudine e alle film commission: dall’Italia, con amore, tra ville sul lago, campagne toscane, Pavarotti & friends, Vespa e panzerotti fritti, Rigoletto e Blondie, ossequio ai sacramenti e frodi fiscali, radici nello sterco di vacca e ambizioni nel jet set.

 

 

In questa corazzata produttiva il regista sembra divertirsi a far giocare senza freno i suoi quattro premi Oscar – Lady Gaga, Jared Leto, Jeremy Irons, Al Pacino – e i due “solo” nominati: Adam Driver e Salma Hayek (moglie di François-Henri Pinault, a capo del gruppo Kering, che controlla molti marchi di lusso, tra cui Gucci). Driver escluso – piuttosto trattenuto e funzionale a sfoggiare con stile orologio-anello-occhiali-cintura-mocassini-doppiopetto – le performance attoriali sono un crescendo di gigionismo. Il campione è Jared Leto, chissà perché truccato in modo da risultare irriconoscibile, impegnato (nella versione originale) in un tour de force vocale goffo, ripetitivo e poco divertente, in perenne rincorsa di un soverchiante Al Pacino e del personaggio di Fredo del Padrino. Definito dal “New York Times” la “musa” di Alessandro Michele, attuale stilista della casa, oltre alla palma dell’assurdo per il suo personaggio (Paolo, figlio di Aldo, fratello di Rodolfo, a sua volta padre di Maurizio), Leto ha un peso narrativo spropositato.  L’importante è buttarla in pagliacciata, evidenziare il tradimento tra parenti, le vendette incrociate, il Giuda (Domenico De Sole) che in silenzio sfilerebbe il controllo della società ai proprietari. Lo scheletro dinastico è solo un canovaccio per una morale riassumibile in “non mischiare famiglia e business”. Più che una famiglia di imprenditori della moda, quello dei Gucci è un clan mafioso. Ambizioni, passioni e brame di potere, con toni e colori da saga televisiva da pubblico del primo pomeriggio. Attenzione: non è la sciatteria o l’accento sbagliato a irritare o tanto meno a offendere. Non vale nemmeno la pena di infierire su un film che il doppiaggio potrà solo migliorare. Ciò che è frustrante è semmai l’assoluta strafottenza e superficialità con cui confeziona una sguaiata narrazione di una storia dal potenziale altissimo: la saga familiare di un marchio di prestigio che si è spenta nel segno della decadenza e della morte. Sfugge il motivo, se non economico, del pedale perennemente schiacciato a tavoletta sul grottesco, in un film che — a parole — prenderebbe le mosse dal potere suggestivo e seduttivo che un lussuoso marchio di moda ha esercitato e ancora esercita nella fantasia collettiva.

 

 

La seduzione parrebbe ridursi, in apparenza, a quella erotica che scatta tra Patrizia Reggiani (Lady Gaga) e Maurizio Gucci (Adam Driver), così potente da trascinarli in un accoppiamento al ritmo della Traviata, mentre fuori dalla ditta di famiglia gli operai le dedicano fischi, in un immaginario rimasto inchiodato all’epoca di Pane, amore e fantasia o Matrimonio all’italiana, tutt’al più all’estetica da spot patinato anni ’80. Divertissement da stranieri in Italia, House of Gucci è essenzialmente un “Gaga movie”: a metà strada tra Liz Taylor, il trucco e parrucco della Gina Lollobrigida nei suoi anni più prorompenti (modello dichiarato per i make up artists) e la perfidia della Joan Collins di Dynasty, è lei a valere il prezzo della visione. È grazie al suo senso dello show (memorabile l’accoppiata con Salma Hayek, nelle scene finali da malavitose burine) se si digerisce questo film pastiche, anzi pasticcio. Un’abile, spericolata operazione di storytelling aziendale, per dirla con formula risaputa, che arriva nelle sale nell’anno esatto del centenario della casa di moda.