L’Italia riparte dalla Napoli dei venditori ambulanti e dei cantanti neomelodici, in questa incursione a metà tra documentario e fiction realizzata da Silvia Luzi e Luca Bellino, già autori di Dell’arte della guerra e La minaccia. Presentato nella Settimana della Critica, il film si dipana a partire dalle reali esistenze di Rosario e Sharon Carocci, padre e figlia nella finzione e nella vita, l’uno impegnato nella sempiterna arte dell’arrangiarsi e l’altra nelle prime fasi dell’adolescenza, quando ci si abbandona alla realtà con meraviglia e una certa insofferenza. Il nodo dirimente diventa però la voce che la ragazza governa come uno strumento e che per il padre potrebbe diventare la chiave per la sua redenzione, per abbracciare quel successo sognato nelle fiere dove porta i suoi peluche promettendo premi sicuri. Così, reinventatosi manager, Rosario sottopone la figlia alle ambiziose trafile del caso per approdare in televisione e incidere un disco di successo, una canzone che riflette il rapporto padre-figlia dal punto di vista di una ragazza trascurata dal genitore, ma che pure Rosario sente molto vicina alla sua esperienza di vita. È solo uno dei tanti cortocircuiti fra realtà e finzione che i due registi portano avanti con i loro attori/autori (i Carocci hanno infatti collaborato anche alla sceneggiatura) e che permette al film di viaggiare costantemente in bilico fra l’esperienza cinematografica classica delle parabole per il successo, e il racconto sincero di un disagio esistenziale che si rispecchia in una dinamica difficile tra padre e figlia, fra pubblico e privato.
L’uso di lenti da 50mm incolla letteralmente la macchina da presa ai volti degli attori, in un gioco di vicinanze e lontananze che riscrive lo spazio filmico, grazie anche all’aiuto del fuori fuoco, usato in senso espressivo. La sensazione è quella di una esplorazione puntigliosa degli stati d’animo, ma anche di una ricercata indeterminatezza nel centrare la reale portata del conflitto, che è poi quella dei due personaggi. L’uno infatti non comprende le incertezze della figlia e la ossessiona con l’impegno per il lavoro; l’altra, dal canto suo, è ribelle, si adagia sulla forza della sua voce ma non “vive” le canzoni come il padre le chiede, e riesce a bearsi del suo dono solo quando si abbandona al canto per gioco con l’amica del cuore. Il mondo si presenta quindi a compartimenti, dove al movimento centrifugo di Sharon, che cerca le amicizie e il mondo, si contrappone quello centripeto di un padre che pure sogna la gloria, ma è spesso chiuso in una casa soffocata dalle sue telecamere di sorveglianza per mantenere il controllo su tutto e “imprigionare” figlia e famiglia. Un mondo quindi scentrato, che deve riguadagnare la sua messa a fuoco, un po’ come accade in un’altra bella opera recente, Un altro me di Claudio Casazza. La cornice napoletana, con le sue sonorità capaci di oscillare pure tra il calore e l’asprezza, è perfetta per questa storia di incomprensione filiale che racconta la mancanza di umanità mentre la cerca a ogni passo. L’apparente programmaticità del plot e dello stile – rivendicata anche nel prologo in cui si citano Verga e il realismo – si rivela pertanto porosa quel che basta per favorire deviazioni e incursioni nel lirismo più puro: accade così nei momenti in cui Sharon è sola davanti all’obiettivo, compie un’azione ma nel profondo ne manifesta un’altra, canta eppure urla di disperazione. Sharon diventa perciò il corpo su cui si consuma la battaglia, bambina ma già proiettata verso l’età adulta, perennemente scarmigliata eppure costretta a vestire bene, che piange ma sfodera una voce d’angelo e che si abbandona nello spazio fino all’ovvia sparizione finale, restituita soltanto attraverso i pixel scomposti (sfocati, non a caso) delle telecamere di sorveglianza. Il cammino sul ciglio del cratere diventa così un progetto estremamente pensato, ma allo stesso tempo potente e in grado di catturare l’attenzione con la forza dei suoi moduli espressivi e dell’empatia evidente fra i registi e gli attori.