Il disagio del presente e la cura della lentezza in Boys, di Davide Ferrario

il nuovo film di Davide Ferrario presta il fianco all’accusa di “operazione nostalgia” e i suoi quattro musicisti, quasi tutti reduci da una magnifica stagione musicale, di quelle che oggi si guardano nei filmini superotto graffiati e riversati su supporti digitali, ovviamente contribuiscono a restituire questa immagine. D’altra parte, di primo acchito il film sembra lavorare in questa direzione tra ricordi e disagi del presente, confermando, così, l’assunto. Non c’è dubbio che dentro la storia di questi quattro musicisti – ex giovani fuori, poiché dentro lo sono rimasti – rimandi al tempo passato, ad un tempo sicuramente migliore di questo. In Boys però quello che conta non è il passato, ma piuttosto il presente, o meglio conta il presente con le sue mutazioni, conta quel presente incomprensibile anche se (o proprio perché) filtrato da quel bagaglio di esperienze e di memoria che il passato ha accumulato. I ragazzi della band – Joe (Marco Paolini), Carlo (Giovanni Storti), Bobo (Giorgio Tirabassi), Giacomo “Polpetta” (Neri Marcorè) – sono, come si potrebbe dire, quasi degli splendidi sessantacinquenni, ad eccezione di Giacomo “Polpetta” che fa parte del gruppo per eredità fraterna, quel Luca scomparso con la sua musica nelle acque di un fiume e il cui corpo, esemplarmente e metaforicamente, non è mai stato ritrovato. Completa il gruppo Steve (Paolo Giangrasso), il fido e giovane giornalista innamorato degli anni ’70 anche lui pesce fuor d’acqua nella sua redazione della rivista musicale.

 

 

È questa la storia del film, tutta centrata sui quattro musicisti che sono arrivati forse al capolinea di una bella carriera da non professionisti. Svolgono altri lavori per vivere e la musica serve a soddisfare quella parte artistica della loro vita, serve a sostituire quel pezzo mancante, quella aspirazione non pienamente realizzata. Il gruppo, in disarmo anche per i problemi personali dei quattro alle prese con patologie dell’età – curate dalla dottoressa Pirovano (Mariella Valentini) – o incomprensioni familiari che rompono la magia di una specie di eterna gioventù, sono pronti a cedere i diritti delle loro musiche ad un giovane rapper, ignorante e tamarro – i miei coetanei non sanno nemmeno che sono esistiti gli anni ’70 – gestito da una zia,che gli fa da manager, spigliata e spregiudicata che aveva intessuto una relazione d’amore con il giovane “Polpetta”. Ma sarà la ricerca di Anita (Isabel Russinova), già cantante nel glorioso passato del gruppo e detentrice della sua quota di diritti sulle canzoni da cedere al rapper, a stravolgere i progetti. L’incontro con Anita, oggi vedova, nel suo rifugio sull’Appennino risveglierà i desideri di Joe, ma cambierà la prospettiva per la rinascita e forse la musica avrà davvero trasformato le loro vite. Davide Ferrario, classe 1956, interpreta un diffuso disagio del presente. I suoi minimali eroi musicisti si muovono poco e male nel mondo di oggi, tra dipendenza dalla rete e influencer che orientano i gusti. Un mondo che ha moltiplicato la sua velocità e che si fa fatica a raggiungere. È proprio su questa velocità che sarebbe opportuno riflettere in virtù di una certa imposta lentezza che il film sembra vivere, una sorta di indolente pigrizia che accompagna l’evolversi della storia.

 

 

 

Ci sembra di percepire in questa scelta una decisa presa di posizione del regista, che non è nuovo nel conformare il suo cinema dentro una riflessiva evoluzione, in un moto che sia controcorrente al flusso inafferrabile delle cose, alla velocità dello scambio dei dati, alla imposta velocità del cinema, per una ricerca di una originaria umanità, la stessa che cercano i suoi personaggi afflitti come sono dal peso di una incapacità di comprendere il mondo e i suoi sviluppi. Se prendiamo ad esempio il suo film precedente troviamo già nel titolo, e poi non parliamo del suo contenuto, una prova di questa ricerca ostinata e contraria della lentezza riflessiva come sistema di approccio alla conoscenza e all’esistenza. Nuovo cinema paralitico, il film composto da più situazioni minimali in un’Italia del tutto e davvero marginale e microscopica ripresa nella sua più vera continuità con il suo pensiero e quello di Franco Arminio, che ne è il coautore, diventa la traccia probatoria più evidente che già dalle tre parole del titolo costituisce una specie di piccolo manifesto, una regola d’autore, una intenzione artistica molto precisa. Per questa ragione si ritiene che il film non possa essere scambiato per una banale “operazione nostalgia”, ma abbia una sua più intima potenzialità, che forse, per ragioni anagrafiche, non a tutti arriva con la pienezza con cui per altre fasce di pubblico può manifestarsi, ma resta pur sempre un cinema che esprime un modo di essere e di pensare, il modo faticoso di vivere il presente e pertanto, come gran parte del cinema del regista lombardo-piemontese, con quella forte componente di “necessarietà” che lo ha spinto ad intraprendere il mestiere della regia. Negli ultimi anni la sua ricerca si dirige verso una salvifica lentezza come antidoto rispetto al velenoso e vorticoso presente. Boys, dunque, prova a raccontare, con la sua piacevole e discreta indolenza, senza strappi e (quasi) senza rimpianti per un più umano passato dentro il quale ci si è formati, il disagio di cui si parlava, l’impossibile adattarsi per gli ultrasessantenni all’evoluzione barbara dei tempi con una prospettiva peggiore. Quella che tra una decina d’anni, con questi ritmi, ad essere esclusi dal mondo saranno i cinquantenni e via di questo passo, con una grossa incognita per il più lontano futuro.