Roma è perduta, decisa dagli umori instabili degli imperatori gemelli Geta e Caracalla, inquietanti come le due sorelline di Shining, feroci come dei lupacchiotti in cerca di preda. Il loro potere irrequieto è controllato a stento dall’influenza della nobile Lucilla, figlia di Marco Aurelio e sorella di Commodo, frettolosamente ucciso nel capitolo precedente, e dal sorgere del potere dell’ex schiavo Macrinio (uno shakespiriano Denzel Washington, capace di mangiarsi chiunque capiti in scena con lui). In Numidia, ai confini dell’Impero, si combatte ancora, per quel che vale. Il giovane guerriero Annone, bianco tra neri, prova a dedicare il proprio livore a quegli ideali di una terra destinata all’asservimento all’Impero, nonostante il coraggio e la buona volontà dei singoli eroi. Roma si espande ma sembra implodere. Cosa resta quindi di quell’idea di Roma – di quel “Roman Dream”, tanto simile al sogno americano, di cui si continua a parlare? Cosa appartiene ancora a quegli eredi inconsapevoli di un indimenticabile pezzo di storia? E cosa ancora può tirare fuori Ridley Scott, cesellatore di quell’antico Gladiatore capace di ridefinire le regole del peplum in variante autoriale, da un canovaccio già sufficientemente spremuto? Ma soprattutto, cosa vuol dire ipotizzare – immaginare – un sequel di un trionfo globale con oltre vent’anni di distanza? Cosa significa dal punto dello sguardo individuale? Del senso collettivo? Di quel che muove il messaggio? Scott riparte, nel Gladiatore II, da dove era rimasto: gli anni sono quelli successivi alla morte di Massimo Decimo Meridio, un Russell Crowe ancora sufficientemente muscoloso e minaccioso da creare un’immagine che è presto diventata un’icona.
Ora siamo in Numidia. L’Impero continua a espandere i propri confini, laggiù un guerriero e una donna pari a lui (in maniera conclamata, una parità di genere impensabile a Roma) sono i ribelli da schiacciare. La donna muore, l’uomo viene catturato come schiavo. E qui il tempo si inceppa, si ripete. Annone – questo il nome “assunto” da un romano costretto all’emigrazione – è, prima ancora che il figlio, spoiler ovvio quanto necessario – il fantasma di Massimo, il suo doppio, la sua forma inadatta che scalfisce e sfiora la potenza di Roma e il ruolo che ancora deve da lui essere assunto. Annone si costruisce come uomo facendo il gladiatore, si ipotizza capo conoscendo e riconoscendo il proprio passato, si riconosce assumendo il ruolo di un padre di cui ha un ricordo vago ma non per questo meno simbolico, una figura sfumata ma sempre più precisa nella propria concretezza simbolica. Ridley Scott, a differenza di alcuni dei propri personaggi, decide di tornare coscientemente sui propri passi, di ripercorrere le orme già facilmente conosciute e riconoscibili. Sarebbe facile pensare che l’unico motore sia quello del successo, dello sfruttamento intensivo di un canone già visto, degli incassi ovvi da preventivare. Ma questo secondo “gladiatore”, ovviamente derivativo e ostentatamente citazionista, ragiona sulla propria natura in maniera più profonda di quel che possa sembrare. Il film riprende – alla lettera, rilanciando e prendendosi il rischio di sfiorare il ridicolo – l’anima più sfacciata e profonda della propria ragione d’essere. Il gladiatore II ricalca, quasi ribatte, il modello originale nel proporre lo stesso modo di inquadrare il proprio protagonista, contestualizzandone – anzi modernizzandone – il ruolo significativo e simbolico.
Paul Mescal è una variante attualizzata di Crowe, ne ripropone la muscolatura ossessiva, è un doppio gettato nella modernità visuale. Rappresenta una variante, forse sessualmente (ma ci importa?) più fluida, parzialmente libera da quel tipo di classica mascolinità, ma comunque idealmente derivativa. Annone è in fondo un Maximus adatto al XXI secolo, un figlio lasciato libero per il mondo e pronto a rivendicare il proprio ruolo cauterizzando le ferite del passato con una modernità ancora non del tutto trasformata in cattività. Il gladiatore II manifesta la propria ostentata ricerca di classicità senza nascondere una pulsione irriducibile verso il presente. E Scott, che della resa per immagini è maestro e teorico, mette in scena questa straziante dicotomia mischiando immagini di ieri e di oggi: repertorio (del vecchio film) virato seppia; combattimenti in smaccato digitale con nemici ipotetici (scimmie assassine, squali nel Colosseo, tigri isteriche e mansuete: il tutto a rischio di un ridicolo da affrontare a testa alta); parallelismi scontati ed eppure mostrati sfacciatamente. Il gladiatore II è, certo, un film realizzato da un vecchio maestro che va verso i novanta. Ma sarebbe insultante non notare il ragionamento che Scott solleva coscientemente. Il gladiatore II è un’epica pensata e plasmata su un’immagine completamente ricostruita, reinventata, duplicata; un campo d’azione totalmente virtuale che, in maniera conflittuale, sa mostrare sprazzi di realtà; una grana impalpabile che ripresenta elementi umani, troppo umani. Certo, il bilico tra enfatico e ridicolo è in agguato; la credibilità delle situazioni – lingua, attori, personaggi – mostra la corda. Ma Scott è, e resta, un adorabile, isterico, implacabile, arrogante sognatore, un uomo di cinema puro: e questo è, nell’asetticità traslucida della cultura dei nostri tempi, un pregio a cui non ci conviene rinunciare.