«Avevo una macchina molto grossa, molto visibile come appunto si usava allora per quelli che facevano la televisione e quando io entrai … nel baretto famoso dell’Università [Statale di Milano n.d.r.] nessuno contestò questo mio, in qualche modo, presentarmi in maniera molto consumistica di allora e questo mi sorprese molto, nel senso che mi sembrò veramente autentico il fatto che nessuno avrebbe desiderato una macchina di questo tipo, ma in realtà tutti volevano essere diversi proprio nel consumo e diversi, quindi, nel loro aspetto esistenziale. Questo secondo me è stato molto importante. È questo che mi ha cambiato. (…) e di questo sono grato al ’68».
(Giorgio Gaber, dal film)
Il merito principale del film di Riccardo Milani, che continua ad affermarsi come uno dei registi più interessanti del momento per lo spettro di riflessi che il suo cinema è capace di offrire, è quello di avere saputo fare aderire la complessità della figura artistica di Gaber, con le sue luci e le sue poche ombre, al suo lavoro di elaborazione testuale e visivo che si è consolidato in questo prezioso documento. Io, noi e Gaber, infatti, non solo traccia un profilo artistico e umano di Giorgio Gaber figlio di un tempo non troppo lontano, ma è sorprendente nell’avere saputo restituire allo spettatore la complessità di quell’epoca e quella di Gaber come intellettuale critico e controcorrente nel suo incontentabile desiderio di onestà del pensiero e dei comportamenti. Un lavoro complesso e mai in punta di penna, una costruzione ragionata che sa dosare l’emozione con la storicità della cronaca, il presente messo a confronto con quel passato nel modificarsi dei costumi e del pensiero, per una attualizzazione indispensabile del lavoro artistico di Gaber. Tutto ciò è avvenuto attraverso una sapiente e complessa articolazione dei registri e della polifonia di strumenti narrativi disponibili, un lavoro di montaggio che regge alla logica narrativa del tema e ad una linearità consequenziale che alleggerisce ogni presunto peso della lunga durata del film rispetto alla classicità dei 90 minuti.
Il film di Milani sa accompagnare con una ricerca nelle Teche Rai le molte anime artistiche del cantante/attore/pensatore Gaber. Dai suoi esordi rockettari da solo o con Adriano Celentano alla mutazione televisiva e ai suoi duetti con Mina in una televisione che sapeva offrire la semplicità dello spettacolo popolare di alta qualità, in un’inevitabile vittoria in ogni paragone con l’oggi dove la scarsità di idee si riflette in quella pacchiana abbondanza di fumo spettacolare. Una vittoria che trova conferma in quanto dice Michele Serra e cioè che Gaber e altri di quegli anni sapevano essere al tempo stesso popolari e d’avanguardia ed era questo il pregio maggiore di quelle espressioni artistiche. Una mutazione che segnava anche il suo progressivo spostamento del pensiero politico, quel pensiero critico ha guidato la sua vicenda artistica e da qui il suo sodalizio sempre più visceralmente partecipato con Enzo Jannacci e con Sandro Luporini, il “più comunista” pittore, la cui reciproca amicizia esordì con il vernissage di una sua collezione quando Gaber e Jannacci accompagnarono musicalmente quella giornata. È proprio forse il percorso di quel pensiero politico, sempre più permeante per il suo lavoro, a costituire il tema di indagine più interessante e argomento quasi dissonante dal racconto esclusivamente biografico che, caratterizza opere del genere che si incaricano di disegnare il profilo di un artista, a diventare il volano moltiplicatore di un climax narrativo che sotto l’aspetto della messa in scena dei temi concettuali della politica diventa quasi esemplare. Io, noi e Gaber si avvale per questo lavoro di indagine, che resta scandito con efficacia incisiva, di molti strumenti: interviste, immagini, confessioni.
Milani con la stessa gradualità con cui conduce il viaggio per entrare nel mondo artistico di Gaber, si addentra nel labirinto di quelle idee – mangiare le idee scriveva e cantava l’autore Gaber – che con il tempo, hanno portato ad una sempre più consistente e quasi misurabile presa di distanza dal un mondo dello spettacolo laureato (direbbe il poeta), per inventare uno spettacolo scabro ed essenziale, popolare e vitalissimo come il teatro-canzone esibendosi allo streheleriano Piccolo oppure nella provincia italiana. Gaber era alla ricerca di una qualità sempre più politicamente caratterizzata e di un pensiero da parte del suo pubblico disponibile a raccogliere e fare fruttare le sue provocazioni con quelle canzoni/manifesto come Se io fossi Dio o Io non mi sento italiano (e sarebbe lungo citare tutte le altre), in quel contatto diretto su quel palco così spoglio, dove il sudore del suo corpo per la fatica, si univa alla sinuosità delle sue movenze, che attraverso un’ironia corporea accompagnavano l’acida ironia se non il beffardo sarcasmo dei versi. Quei versi nascevano da quella collaborazione lunghissima e proficua con Sandro Luporini, il pittore ma anche scrittore, in una assonanza di percorsi intellettuali che forse fa il paio solo con Fruttero e Lucentini per la durata e l’amicizia sincera e profonda che ne nacque e che caratterizzò il loro lavoro distinguendolo così dalla semplice collaborazione artistica.
Da qui il lavoro quasi enciclopedico di Milani che si avvale anche nella elaborazione dialogica che guarda alla ricostruzione dei tempi e delle idee di una forza intellettuale pesante, incontestabilmente adatta a definire, sotto quella polifonia di cui si diceva, non solo il Gaber cantante, ma anche il Gaber politico con le sue contraddizioni – la frase in esergo ne è un esempio – ma anche con la capacità, ancora una volta di lavorare sulle differenze tra quei tempi e i nostri in tema di desideri e di utopie. Milani dialoga con le sue immagini e con molti personaggi che vale la pena ricordare, la figlia Dalia e il marito Roberto Luporini e il figlio Lorenzo, Gino e Michele, Michele Serra, Vincenzo Mollica e Massimiliano Pani, Claudio Bisio, Sandro Luporini e Jovanotti, Gianfranco Aiolfi, Massimo Bernardini, Paolo Jannacci, Gianni Morandi, Mario Capanna, Paolo Dal Bon e con Fabio Fazio, Pierluigi Bersani, Mercedes Martini, Francesco Centorame, Ivano Fossati e Guido Harari, Mogol e Ricky Gianco. Poi c’è lei, la moglie amata per sempre, come segno di una contraddizione politica vivente, Ombretta Colli, che muta e anziana ripete le parole delle canzoni del marito e che ci emoziona nel suo vestito rosso che sembra rappresentare, ancora una volta, l’indissolubile legame d’amore che unì due così belle differenze.