Il patto del silenzio – Playground di Laura Wandel: un mondo di poesia e crudeltà

Film di sguardi interrotti, abbracci spezzati e sorrisi spenti Il patto del silenzioPlayground (Un monde – Playground nella versione originale) è il primo lungometraggio di Laura Wandel, giovane regista belga classe ’84 interessata a portare in scena la complessità delle dinamiche relazionali tra bambini all’interno del contesto scolastico. Banalmente si potrebbe liquidare il film inserendolo in uno di quegli elenchi infiniti di titoli “utili a” o “belli per” affrontare le questioni connesse al bullismo eludendo, e quindi tradendo, la forza espressiva e la capacità di entrare in sintonia con gli affetti autentici dei personaggi. Un riduzionismo che inquinerebbe il senso di un film potente ed esigente nei confronti dello spettatore perché rivelatore di un’estetica dell’osservazione e del pedinamento, che guarda al cinema dei Dardenne, ma a suo modo nuova, dichiarata fin dalla prima inquadratura e dal primo movimento della macchina da presa.

 

 

Il principio da cui tutto parte e a cui tutto torna è la distanza tra l’io e il tu, tra l’io e l’Altro inteso come mistero insondabile e non comandabile, mai del tutto leggibile. Per evitare riduzioni di comodo, allora, sarebbe bene partire dall’incipit, fermarsi un attimo sull’ampiezza del significato delle parole utilizzate da Abel nei confronti della sorellina Nora che, per incoraggiarla, le promette di essere sempre al suo fianco. C’è una promessa, si fa sul serio. Oppure, rileggendo l’evoluzione dello stato emotivo dei due protagonisti, parallelo e alternato, soltanto nel finale convergente, balzerebbe all’occhio la narrazione di un non-vedere che contamina prima Abel, poi Nora e che, forse, declina meglio di qualsiasi sottolineatura, le mancanze di un mondo adulto, comunque presente ma inconsistente e impotente. Non solo. Evitando qualsiasi forma di giudizio, Laura Wendel lavora su forme ed equilibri sia quando rappresenta gli spazi abitati da Nora e Abel, come le aule e soprattutto il cortile, sia quando deve rappresentare gli adulti che li circondano. In entrambi i casi, soluzioni analoghe in cui campo e fuori campo dialogano ininterrottamente, amplificano le strategie di sottrazione finalizzate all’evocazione rispetto a quelle in cui la somma di fattori favorirebbe la spiegazione. Esemplare la scelta di restituire allo spettatore la prospettiva di Nora che riesce a percepire solo frammenti del mondo circostante, solo frammenti di corpi, di spazi, alla sua altezza di bambina. E la scuola è percepita come una specie di mostro da cui verrà inghiottita. Come giustificare, altrimenti, il sottile lavoro sul suono? In questo senso, nonostante il caos, non c’è niente di più sicuro del cortile dove tutti, o quasi, i bambini esternano la propria gioia, gridando. Un modo per conquistare il proprio posto, afferrare la propria identità, lasciare il segno. E così, non solo gli adulti ma spesso anche i coetanei risultano presenze sfumate, comparse nella vita di due solitudini come Nora e Abel. Come dichiarato dalla Wandel: «Sono partita da una storia di fratellanza perché la fratellanza ci definisce. E questo è ciò che verrà minato. A un certo punto Nora rifiuta suo fratello perché sente che questo è l’unico modo per integrarsi nella sua nuova comunità. Sulla questione dell’integrazione, abbiamo spesso l’impressione di dover corrispondere alla visione dell’altro e rinunciare a una parte di noi stessi per corrispondere alla massa, che risponde al bisogno vitale di integrazione. La questione dell’amicizia come atto di emancipazione è centrale in questa storia».

 

 

Tra le pieghe di questa drammaticità, il film di Wandel riflette il nostro tempo di precarietà affettive, riflesso di un’umanità in cerca di se stessa e di punti di riferimento, avanzando sottovoce una domanda: ma come possiamo aiutarsi a vicenda? È ancora possibile credere in una parola che annulli la violenza? Esiste la possibilità di virare verso un mondo migliore, da costruire e di cui prendersi cura? Ma, soprattutto, come convivere con ignoranza, mancanza di ascolto, superficialità e aggressività anche in quei contesti come la scuola in cui si confida per coltivare alternative alla desolazione e all’isolamento? Il film si spinge molto oltre la messa in scena del bullismo come tema. Questo non è un film a tema. È un film che osserva la violenza da molto vicino, si interroga sulle origini del male e non arriva a un giudizio ma lascia spazio allo spettatore creando un dialogo autentico e prezioso.