Il primo anno di Thomas Lilti o dell’appartenere

“Dobbiamo mettere la società al servizio della scuola, e non la scuola al servizio della società”

Non meno di Racconti di un giovane medico di Michail Bulgakov, il libro di fotografie Médecin de campagne di Denis Bourges (Les Édition de Juillet) è stato fonte di ispirazione per la realizzazione di Un medico di campagna (2016), film che aveva permesso a Thomas Lilti di affermarsi dopo il successo di Ippocrate (2014). Nella prefazione al libro di Bourges, Martin Winckler faceva queste osservazioni: «Fare il medico di campagna significa mettere radici, anche quando si è cresciuti in città e si è viaggiato molto. Si finisce con l’adottare un ritmo di vita, una parlata, degli usi e dei costumi. Non si è più soltanto colui che cura le malattie e raccoglie le confidenze delle preoccupazioni, si diventa anche il testimone dei cambiamenti del paesaggio, degli avvenimenti nel villaggio, delle partenze e degli arrivi. Si entra a far parte della contrada, della comunità». Tra le righe si può leggere un invito a virare lo sguardo dal tecnicismo alla passione, riorientando così il senso del curare e quello del vivere. Infatti, spostandosi dalle corsie ospedaliere di Ippocrate alle strade tortuose di un paesino della campagna francese, Thomas Lilti con Un medico di campagna esprimeva con forza il senso del suo cinema chiamato a raccontare qualcosa di nascosto, ineffabile, perduto ma raggiungibile: l’appartenere a qualcosa e a qualcuno.

 

 

Seguendo questo tracciato colmo di sentimento e realismo, attento a osservare le contraddizioni della società senza mai dimenticarsi che un’alternativa è possibile, Il primo anno offre a Lilti la possibilità di chiudere un’ideale trilogia dedicata al mondo della professione medica, questa volta concentrandosi sui giovani e sul fatto che il sistema non faccia nulla per tutelarli. Raccontando la storia di amicizia tra Antoine e Benjamin, due aspiranti medici alle prese con il test di ammissione per entrare alla facoltà di medicina, il film mette in scena le tensioni e le storture di un ambiente ferocemente iper-competitivo, quotidianamente interessato a ripetere che non c’è spazio per tutti ma in cui tutti sentiamo di essere obbligati a vivere. Il soggetto prende spunto da esperienze vissute in prima persona da Lilti, come dichiarato dallo stesso regista: «Volevo raccontare la brutalità e il calvario di questi grandi test di ammissione che determinano una vita intera. Questo primo anno di medicina, completamente pazzo, dove si vive solo in funzione di quelle poche ore in un centro di esami, io l’ho vissuto. Abbiamo appena lasciato il liceo e già il sistema di istruzione superiore ci mette in competizione, ci classifica, ci oppone. A che punto abbiamo finalmente trovato la normalità? Questo sistema funziona davvero? Con questo film ho voluto fare una dichiarazione e sollevare queste domande».

 

 

È chiaro che il cinema di Lilti si diriga altrove non limitandosi a descrivere la superficie delle cose o a raccontare “semplicemente” una storia di amicizia durante un anno scolastico. Sì, lo schema iniziale è quello del romanzo di formazione ma poi s’innesca un principio di inversione che altera i ritmi e scompiglia l’ordine di partenza facendo prendere al film pieghe inaspettate che mescolano la leggerezza di una commedia che sdrammatizza senza essere banale ma anche l’asprezza di un film che documenta e denuncia senza perdere la misura. La vocazione di questo cinema è politica, senza dubbio. Ma per Lilti questa inclinazione si riflette nel corpo e nello sguardo dei suoi personaggi soprattutto quando concede spazio e respiro, come nella scena sulla terrazza in cui Benjamin e la vicina bevono il caffè e lui le chiede: «Hai mai sentito parlare di mitocondri?»; oppure, quasi con vena nostalgica, si manifesta esplicita quando con spiazzante sincerità riflette su un sentimento abusato come l’amicizia. Benjamin e Antoine sono due eroi che non ti aspetti, diversamente vittime ma similmente complici nell’affrontare gli ostacoli imposti dalla società. Comprendono di essere sulla strada del proprio futuro e di essere alla ricerca di un luogo-mondo da vivere soltanto dopo avere fatto i conti con la propria storia e con la propria condizione di studente, per natura duplice e sospesa tra poli opposti e contrastanti: tra una imposizione e una disposizione, tra un ruolo spettatoriale e uno attoriale. Lo studente è un elemento “teso” (attento, “tende a”, si dirige verso un obiettivo ma pure è in tensione quando vive la sua condizione in modo conflittuale o problematica) e il continuo confronto con se stesso e gli altri si traduce in altrettante tensioni caratterizzanti. Il primo anno si trasforma dunque in un film sull’importanza dell’altro nell’affermazione del sé. D’altra parte, come dichiarato da Lilti, il cuore del film è proprio nell’intenzione di mostrare la disparità alla base del sistema di istruzione: «Quando all’età di 18 anni tutta la tua vita dipende dalla tua posizione in una graduatoria, c’è qualcosa che non va. Ho voluto far trasparire questo divario tra Benjamin e Antoine anche dal punto di vista delle diseguaglianze sociali. Benjamin può permettersi un appartamento a Parigi, mentre Antoine vive in periferia… Attenzione, non è una questione di soldi. La ferocia sociale è di origine culturale. Quando si vive in un contesto che ha dei “codici”, questi ti vengono necessariamente trasmessi. Il padre di Benjamin è un medico e sua madre è una docente universitaria. Inconsciamente, ha già gli strumenti per avere successo in questo sistema. Io provengo da quel tipo di famiglia che viene definita “intellettuale”, in cui l’idea di passare ore alla scrivania a leggere e prendere appunti è normale. All’inizio non ha nulla a che fare, credo, con la borghesia o la lotta di classe. È piuttosto la conseguenza. Il retaggio culturale valorizzato dal sistema finisce per produrre una gerarchia sociale. Anche se è meno appassionato di Antoine, Benjamin sarà sempre più valorizzato di lui dal sistema di istruzione superiore perché gli è stato insegnato a “imparare”. Questo è assurdo. Soprattutto in medicina. Non c’è niente di più concreto dell’essere un medico. Ci si confronta con le persone. Ma chi sarà favorito?». Collocare al centro l’umano, le sue relazioni e i suoi sentimenti, ma anche i suoi sacrifici e le sue passioni (ciò per cui proviamo un “patire”, per cui siamo disposti a perdere e offrire qualcosa di noi), oltre a rappresentare una sorta di antidoto all’iper-competizione divorante del mondo, costituiscono gli aspetti di un film che è tanto giusto e tanto romantico nel ricordare quanto sia necessario affermare la propria corporeità come spazio decisionale autonomo e non condizionato. In tutta la sua contraddittorietà, questo momento di rivelazione reciproca coincide con “il primo anno” di una nuova vita (?) e finisce per essere la risposta attesa alla domanda che ciascuno si pone: per cosa e per chi viviamo?