La discrepanza del tempo come forma basica della ribellione, che è prima di tutto una questione di spazio interiore, da ridefinire secondo coordinate che non appartengono al sentire comunemente imposto. Si potrebbe descrivere così la parabola di Domenico Scandella, il mugnaio chiamato Menocchio che incarnò l’eresia nel Friuli del XVI Secolo, al quale Alberto Fasulo ha dedicato questo suo film. L’astrazione ideale opposta da quest’uomo semplice all’oscurantismo del suo tempo e stigmatizzata dal potere religioso, è il rumore bianco al quale Fasulo tende questa volta l’orecchio. O meglio il rumore nero, il bagno di oscurità dal quale fa emergere una figura ruvida e statuaria come un albero da abbattere e scorticare per redenzione imposta. Il suono costante delle sue parole, condivise nel chiuso del suo mulino con la semplice gente del villaggio, stride alle orecchie dei prelati, che lo imprigionano e lo accusano di eresia. Il suo pensiero ha in realtà la sola colpa della libertà, l’obiezione di una visione limpida e logica della vita in armonia di fede naturale, lontana da dogmi e astrazioni teologiche: l’immacolata concezione della Vergine Maria, il potere della Chiesa e tutto l’apparato di sottomissione popolare mediato dalla paura religiosamente imposta non appartengono al suo sentire e ne fanno un ribelle naturale e innocente, lontano da qualsiasi rivolta che non sia quella del pensiero e della parola libera.
Alberto Fasulo scolpisce un ritratto di questa figura storica che ha la rigorosa semplicità della materia grezza: illustra gli eventi incarnandoli in una messa in scena trovata nel rapporto con figure recitative non finzionali ma notevoli, a iniziare da Marcello Martini che interpreta Menocchio con una immota sensibilità davvero sorprendente. Fasulo sprofonda le figure e gli spazi in un buio fotografico affidato alla luce naturale degli spazi negati: l’oscurità del film è ideale e non è dovuta solo all’azzeramento delle fonti luminose, ma soprattutto al restringimento degli spazi, alla chiusura dell’inquadratura nei piani su cui definisce la prigionia. Menocchio è inciso sul rapporto simbiotico con l’oppressione fisica di questo spirito libero e sul rapporto difforme che impongono i prelati (deformi e grotteschi nel loro acuto sapere come i Signori del Salò pasoliniano). C’è tensione e ossessione, in questo film, ma c’è anche la resistente declamazione di una poesia rimossa eppure persistente nella fermezza lirica di un personaggio che assume nelle intenzioni di Fasulo la dimensione di una ambiguità prolifica e significativa soprattutto per gli occhi dogmatici delle troppe certezze professate nel nostro tempo.