Agnès Varda è stata una magnifica autrice che ha di continuo, in una perpetua reinvenzione dello sguardo, delle sue prospettive, del suo sentire, provato a ricostruire quell’indefinito rapporto che si ha con il tempo, con la memoria, con i luoghi, con i visi, con le persone che hanno incrociato, anche occasionalmente, la nostra vita. Con il suo cinema, ce ne accorgiamo oggi, in quella accettazione del pensiero pasoliniano per cui la morte costituisce il montaggio definitivo della vita, ha elaborato la sua personale vita interiore, ha mostrato – come diceva Chabrol a proposito di altro – non raccontato, proprio mostrato il suo legame estremo con una vitalità interiore che sapeva trasformare in immagine, restituendo verità ad ogni fotogramma e imprimendo il suo personale marchio di autentica artista in ogni film che sembrava ricomporre gli attimi della sua vita. Avevamo già avuto la sensazione che il cinema fosse, quasi generalmente, una terapia. Con Agnès Varda ne abbiamo avuto la certezza, una magnifica terapia interiore che serve a salvare la vita. Lo abbiamo scoperto molti anni fa con quel magnifico film che è Garage Demy, elegia, atto d’amore, lettera d’addio, riscoperta del passato, ricostruzione del presente, elaborazione anticipata di un lutto imminente, tutto quanto possa dirsi su questa forma d’amore infinito e irresolubile verso l’uomo della propria vita, mentre la deriva dell’AIDS lo allontanava per sempre.
Ma ci siamo anche accorti di quanto il suo amore per tutto quello che ha amato a cominciare dal cinema – indimenticabile l’immagine di lei nello studiolo con le pellicole che la circondano, quasi a sottolineare quella indispensabilità della pellicola come tema costante della sua vita – l’abbia salvata da ogni paura, da ogni possibile paura del futuro, in quella accettazione di un presente che ai suoi occhi (e nelle sue immagini) si sapeva fare sempre splendente, brillante, degno, insomma, di essere vissuto. Per queste cose ci manca moltissimo lo sguardo di Agnès Varda, che ha saputo raccontare, declinando al presente, quel magnifico tempo del cinema, indispensabile linfa vitale, alimento appagante e strumento irrinunciabile per la ricostruzione della propria vita interiore. Se un titolo si dovesse attribuire al cinema di Agnès Varda, forse dovrebbe contenere le parole “vita interiore”, perché è quello che con volontà estrema è sempre riuscita a mostrare con le sue immagini sospese tra il racconto e l’immaginazione, tra quel volere e potere che spiega in quattro parole all’incuriosito J.R. in quel quasi addio che è Visages villages (altre due parole indispensabili per raccontare il suo cinema) o in quell’amore già mostrato nel precedente Les plages d’Agnès, film compendio e primo bilancio della sua vita, che diventa soprattutto commossa e partecipata celebrazione dei luoghi amati, dal Point Court della sua Sete, agli Stati Uniti e Cuba altri luoghi cruciali per la sua formazione artistica.
Per fortuna abbiamo ancora qualcosa da vedere di Agnès Varda, prima di ricominciare a riguardare il suo cinema e ci aiuta la Cineteca di Bologna che si occupa di restaurare un indispensabile pezzo sfuggito finora circuito più o meno mainstream, alternativo, culturale che dir si voglia. Daguerréotypes è un film del 1976, non dissimile per impostazione e struttura dalla sua successiva produzione, forse più grezzo, come lo era il cinema degli anni ‘70, ma vero, autentico, profondo con il suo lieve tocco femminile. Cinema che nasce dallo scrutare il mondo, che si realizza in quella breve distanza che sembra separarci dalle persone e che invece scopriamo di avere vicine. Cinema di piccoli mondi che ne compongono uno più grande, come di immagini racchiuse dentro una scatola magica, racconti e volti inaspettati. Cinema di idee e non di sovrastrutture, legato al presente e rivolto alla ricostruzione di una memoria che sembrava indelebile e che invece si fa nebbiosa, cinema del ricordo e diaristico, splendido ritratto di un’epoca tutto ridefinito dentro la semplicità di una illuminazione artistica. Un film che sa nascere da una semplice, quanto inattesa intuizione, quella di lavorare sui volti e sulle storie delle persone che, come la regista, all’epoca abitavano a Parigi, in via Daguerre, l’inventore del dagherrotipo.È un po’ tutto questo Daguerréotypes, un ritratto istantaneo di un luogo che resterà immutabile nella memoria, un dagherrotipo che invecchia, ma che non consuma, come Dorian Gray, l’autentica bellezza che racchiude, un’istantanea di un piccolo universo ancora di salvezza e sicurezza quotidiana.
Agnès Varda scende nella sua strada, con la sua macchina da presa, con la sua voglia di assorbire gli occhi e gli sguardi, le parole e i volti del suo mondo, di quello che le è stato assegnato e comincia a fare cinema a raccontare le piccole miserie disegnate sui volti del macellaio e dell’alchimista di profumi, le delusioni di chi arriva dalla campagna o le gioie di chi ha trovato nella splendida città francese il luogo per realizzare i propri sogni. In Daguerréotypes Varda accumula tutto, cataloga ordina, segue il filo di una memoria personale che si riannoda a quella dei suoi interlocutori ed è in questo processo che il suo cinema si sviluppa in quel ricercato equilibrio che sfugge ad ogni insegnamento, perché è talento naturale, è vizio del vivere, quello stesso vizio che anni dopo, in una sorta di rielaborazione di questo inziale percorso, le fece girare il già citato Visage Villages assai affine a questo e vera ricostruzione di una memoria ancora più larga e ancora più straordinaria, da fissare non solo nelle immagini della macchina da presa, ma anche nelle gigantesche ricostruzioni fotografiche di J.R., perfetto giovane compagno di strada della nostra regista. Forse Daguerréotypes è l’incipit di questo sguardo assorbente della regista franco-belga, è dare l’avvio ad una poetica che resta indissolubile dal suo percorso artistico, per una regista che forse come tutti i grandi, durante la sua vita, ha girato sempre lo stesso film, reinventando non altro se non la prospettiva, il punto di vista, restituendo sempre al suo cinema quella ottimistica efficacia che per un momento ci consente di amare infinitamente tutta l’umanità.