Io sono la verità: After The Hunt, di Luca Guadagnino

Lo specchio della verità è sempre opaco nel cinema di Luca Guadagnino: i suoi film guardano lo spazio delle azioni e delle relazioni seguendo geometrie cangianti, architetture etiche fluide non per mancanza di rigore morale ma per agilità di pensiero, proporzione delle cose in campo, equilibrio dei volumi scenici. Prendete After The Hunt, il film che il regista porta a Venezia82 Fuori Concorso: è un thriller ambientato a Yale, in una scena di proporzioni accademiche in cui la vita si misura in termini speculativi, dove si palleggia il sapere come nel mondo reale si maneggiano strumenti pratici. La logica delle argomentazioni è quasi asfissiante, spezza il fiato delle verità con la tenacia dialettica che scandaglia azioni e reazioni, ipotesi e conseguenze: tutto ruota attorno a un perno di potere che viene da sapere e si incarna in Alma Olsson (Julia Roberts), docente di filosofia in attesa di cattedra. L’assetto strutturale del film è omologo a quello di A Bigger Splash, che era concentrico e occlusivo, ottuso sulla ricerca di una verità che in realtà non interessava a nessuno, dal momento che tutto si riconduceva a un gioco scenico attorno a una piscina in cui galleggiava un cadavere. In After The Hunt non c’è un morto e forse non c’è nemmeno un delitto, c’è di sicuro la denuncia di un crimine – un abuso subito da una giovane dottoranda gay, di colore, a opera di un professore – e tanto basta perché si crei un vortice di verità opposte, che agitano la grande scena concentrica dell’Università di Yale, microcosmo esponenziale in cui le vite e le carriere hanno il medesimo valore.

 

 
Guadagnino sa bene di avere per le mani un soggetto incandescente se esposto dinnanzi a una società come la nostra, che si avvinghia alla correttezza formale come se fosse una coperta troppo corta per nascondere i problemi ben più gravi che la tormentano. E sa anche, il regista, che per dinamizzare filmicamente la questione della verità è necessario lavorare sulla complessione della scena, sull’insieme degli elementi che ne compongono la struttura fisica. Ed è per questo che in After The Hunt Yale diventa una sorta di grumo simbolico privo di una consistenza fisica: è pressoché impossibile trovare in un film di Guadagnino una simile disparizione della scena, un così esposto disinteresse per l’identificazione fisica del luogo. Qui tutto converge sugli interni – salotti, cucine, loft, pub, studi, atenei e cortili… L’identificazione dello spazio è azzerata a favore di una tensione verso i corpi, che sono abitati da ambizioni e passioni, e verso l’unica vera azione – lo stupro – che però rimane non solo fuori campo, ma addirittura ipotetica. Perché in realtà non sappiamo se la violenza dichiarata dalla giovane dottoranda Maggie (Ayo Edebiri) sia effettivamente avvenuta o si tratti di un suo stratagemma per deviare le allusioni di plagio fattele da Hank Gibson (Andrew Garfield), il professore contro il quale ha puntato l’indice. Del resto, questo è un film in cui il “dopo”, l’after, è il vero luogo dell’azione: il punto d’osservazione affidatoci è quello degli eventi già accaduti, prima, altrove. Vale lo stesso per il segreto che nutre Alma, la protagonista, un evento legato alla sua prima giovinezza, non dissimile da quello ora raccontato da Maggie, che del resto ne è a conoscenza e potrebbe essersi inventata tutto ispirandosi proprio a quello.

 

 
E poi c’è la tensione assoluta del desiderio, che è il principio conoscitivo fisico, reale, attinente i corpi, tenuto però, anch’esso, rigorosamente fuori scena, rimosso: Maggie forse è attratta da Alma, Alma forse è attratta da Hank, che a sua volta è forse attratto da lei. Senza considerare infine che il punto di vista esterno, l’unico reale, oggettivo, del film è quello di Frederik Olsson, il marito di Alma, maturo psicologo, estraneo al tourbillon accademico della moglie, decisamente, sicuramente, serenamente innamorato di lei e, per questo, disposto ad accettare le sue disattenzioni, la sua sostanziale distanza emotiva… Una distanza che è la temperatura del film, sicuramente il meno sensuale di Guadagnino, intrappolato nei sofismi dei dialoghi scritti da Nora Garriett, avvinghiato alla plastica funzionalità sociale dei personaggi, quasi una configurazione parallela a quella che si trovava nella famiglia Recchi di Io sono l’amore. Su questa distanza guadagnino costruisce una tessitura visiva che spiazza il baricentro figurativo delle scene, aggredisce le figure in campo con movimenti di macchina imprevedibili, anche spericolati a volte. Questo è un film sulla ricerca della verità nell’impero della menzogna.