Il ritratto post vitam di Jacqueline Kennedy è ovviamente per Pablo Larrain l’occasione per mettere in atto la sua strategia decostruttiva del potere, lo smantellamento del corpo sacro dalla sacralità della sua postura, lo slargamento della fessura da cui gli esistenti spiano la potenza degli dei. La glaciale prestazione richiesta a Natalie Portman per rendere la prassi del dolore della First Lady macchiata del sangue del marito, la tagliente distanza che pone tra lei e chi le sta attorno, è il vero bisturi che incide il corpo morto del potere. Lo sguardo autoptico di Jackie è persino più agghiacciante di quello posto in essere da Larrain in Post Mortem, perché lì la scansione organica del decesso giaceva sul tavolo patologico, mentre qui la necrosi del potere è applicata ai cromatismi arcobaleno di una posa in opera pubblica del funerale, sta tra il rosa confetto del tailleur indossato da Jacqueline a Dallas, il rosso del sangue presidenziale che lo macchia, il nero della mise funeraria indossata alle pubbliche esequie e il bianco dell’abito con cui neutralizza il giornalista cui ha concesso l’intervista che fa da base narrativa al film. Quello che interessa a Larrain è, in effetti, il processo testimoniale in cui si riflette il dissidio tra la possibilità di accedere al potere, di conoscerlo, praticarlo, maneggiarlo per possederlo: l’intera traccia offerta dalla visita televisiva alla Casa Bianca ristrutturata da Jacqueline è trattata dal regista come la vera inquietante autopsia a vista del corpo del potere, coltra tra la scansione frontale delle immagini televisive in bianco e nero (rimaneggiate digitalmente con Natalie al posto di Jacqueline) e il backstage scritto prospetticamente sulla tavolozza cromatica anni ’60. Jacqueline è l’antitesi del monumento perché è la transitorietà che cavalca l’eternità, il fremito in cui si trattiene il confronto tra l’essere terreno del potere e la sua definizione eterna: la doppia confessione cui Larrain sottopone la First Lady decaduta – quella che concede al giornalista e quella che chiede al sacerdote – è il faccia a faccia con il giudizio di sé che questa donna cerca per se stessa. Il film è tutto scritto nella disarticolazione di questa frontalità dell’ascolto, nell’insidia di una valutazione che scavalca la forma delle cose apparenti e si insedia nel cuore del potere per liberarlo: ancora una volta, dopo Post Mortem, No, Il club, Pablo Larrain racconta una storia che si colloca esattamente nel vuoto di potere…