Una stoffa rossa riempie lo schermo, come un sipario, sui titoli di testa: ecco a voi Julieta, l’ultimo film di Pedro Almodóvar. A Madrid, Julieta e il suo compagno stanno ultimando i preparativi per il trasferimento a Lisbona. Un casuale incontro con una giovane donna però rimescola le carte. Parlano di Antía, la figlia di Julieta, che dissimula solo a tratti il suo turbamento. Scopriremo nel film che le due donne non si vedono da anni, incapaci di elaborare insieme un lutto terribile che le ha colpite e che, forse, solo attraverso un nuovo lutto potranno ipotizzare un riavvicinamento. La storia è narrata dalla madre che, come in una lunga lettera-romanzo, ripercorre la sua vita, le speranze e l’entusiasmo di giovane professoressa, l’amore per la mitologia classica e le sue storie, la passione che la lega a un taciturno e muscoloso pescatore incontrato per caso su un treno alle prese con una moglie malata, l’ombra della morte che aleggia sulla protagonista, come un destino ineluttabile.
Almodóvar alterna i lunghi flashback con il presente di Julieta, la sua lotta contro una depressione che la avvolge, la testarda volontà di trovare, cancellare e poi ancora ritrovare la figlia perduta. Il regista madrileno ancora una volta racconta di donne piegate ma mai dome, del fato implacabile e degli abissi del cuore, di uomini dallo stesso nome – omonimie simboliche che definiscono i personaggi – destinati alla morte per essere pianti dalle loro madri-mogli-amanti, di doppi che si sfiorano, incrociano, sfumandosi nei contorni incerti dei rapporti familiari. Julieta è un film avvolgente e fluido, girato con mano solida, che guarda ai modelli melodrammatici del cinema classico – potrebbe sembrare, a tratti, negli snodi narrativi e nella messa in scena, un film degli anni Cinquanta – non dimenticando suggestioni contemporanee anche sorprendenti (il look di Julieta da giovane è identico a quello di Melanie Griffith in Omicidio a luci rosse di De Palma e crea un cortocircuito semantico a tinte noir). La centralità dei sentimenti, della solidarietà, dello sforzo emotivo per incontrarsi e fondersi che è presente in tutti i personaggi rappresenta il nucleo pulsante del cinema di Almodóvar. Così come il gusto per il romanzo popolare, per i miti, per una cosmogonia dei sentimenti che regola il mondo. E Julieta in questo non fa eccezione. Qua e là si notano però segni di stanchezza, qualche ridondante ripetizione, una poca voglia di osare, anche stilisticamente: tracce di una impasse creativa che danno al film – in maniera quasi sincronizzata con i frequenti salti temporali – una certa frammentarietà, un senso di sfilacciamento, l’immagine di una figura incompiuta. Nonostante questo, grazie anche a qualche bel momento sinceramente mélo, alla generosità delle due attrici protagoniste (Émma Suarez e Adriana Ugarte, nei ruoli delle due Julieta) e a un finale aperto che dissolve il dramma con la forza della speranza e degli affetti – e che in qualche modo rimanda a Légami! – Almodóvar confeziona un film dal vago sapore rétro, una variazione sul tema che però, a saperla ascoltare, a tratti scalda il cuore.