Di nuovo un’immersione dentro quel ventre napoletano che sembra davvero terreno infinito per il cinema, per il racconto del passato dei suoi protagonisti, per una rifondazione del presente. Caracas di Marco D’Amore è un adattamento per il cinema di Napoli Ferrovia di Ermanno Rea, che, dopo Nostalgia di Mario Martone, diventa uno degli autori di riferimento più originali per scandire la distanza tra i passati e i presenti dei personaggi che ricercano, in quel labile filo della memoria cittadina e personale, una nuova vita, una possibile pacificazione. Da qui nasce questo cinema inquieto che racconta personaggi e luoghi, oscure coincidenze e inattese condensazioni e rimozioni come se si trattasse di una lunga fase onirica, di una visionarietà notturna, di una illuminazione improvvisa. Se Nostalgia era un film in fase di veglia, Caracas è un film che sembra una lunga immersione notturna dentro un sogno infinito in cui non valgono le coordinate diurne, il tempo lineare, la finitezza dei protagonisti, e non resta che affidarci alla labilità della visione onirica, alla incertezza della sostituibilità del tempo, alla sua circolarità, alla sostituzione dei personaggi come accade nel sogno. È in questa prospettiva di lettura che il film ricorda, nel suo impianto visionario e notturno, il joyciano Finnengan’s wake fluviale rievocazione della storia universale nel quale la mutazione dei personaggi diventa terreno fertile per la superfetazione narrativa. Un risvolto che quasi in modo subliminale attraversa impetuoso il disordinato racconto del film.
Caracas e Giordano sono i due protagonisti del racconto. Caracas chiamato così perché nato in Venezuela e Giordano scrittore di successo che torna nella sua città. Il primo è un fascista legato ad una cellula di ispirazione nazista xenofoba. Dopo un raid contro gli immigrati Caracas si pente e, complice il suo rapporto con l’immigrata araba Jasmine, abbraccia l’Islam. Giordano annuncia pubblicamente la fine della sua carriera di scrittore. Le due vite si incrociano in una Napoli quasi malleabile e adattabile. In un lungo onirico racconto il passato si sovrappone al presente in una ricerca di impossibile stabilità, anche perché nessuno conosce il futuro come ci ripete la voce off di Giordano, vero traghettatore dell’anima inquieta di Caracas. Va riconosciuto a Marco D’Amore un certo coraggio a gettarsi nell’adattamento di un testo che diventa labirintico e intessuto di verità notturne, un film ambizioso che vuole entrare in quelle viscere metropolitane così ribollenti di contraddizioni. È in questa direzione che Caracas, il personaggio interpretato dallo stesso D’Amore, diventa una figura quasi cristologica accompagnata in questo suo Calvario itinerante, in questa irriducibile stanchezza di presente e desiderio di fuga, dalle parole dello scrittore finito che ritrova proprio nella vita di quello scugnizzo senza padre, né madre, in una vecchia fotografia dell’orfanotrofio che lo ospitava, la linfa per un suo nuovo romanzo, un lungo e straordinario racconto. È così che Napoli Ferrovia diventa materia per il cinema e D’Amore ci lavora con intensa partecipazione, con la sua scrittura e quella di Francesco Ghiaccio, mettendoci sé stesso per un film ambizioso e anche imperfetto, ma attraversato da una partecipazione emotiva intensa, mai allentata dalla voglia di adattarsi ad una convenzionalità partenopea. La sua Napoli, nella luce notturna da inferno dantesco, diventa davvero il vortice che inghiotte le esistenze, le trasforma e le riporta alla luce. Caracas diventa un film febbrile, carico di una ansia di racconto e di una paralisi del ricordo, un film che apre un incolmabile buco nero tra passato e presente in quella terra mobile e incerta che diventa il presente.
Film evocativo, di una infanzia senza direzione, di una fanciullezza da Lazzaro felice, di quella felicità che non ha approdo e che vive di minuto in minuto senza sguardo al futuro, senza memoria del passato. Marco D’Amore fa davvero un gesto d’affetto per questa Napoli inesauribile contenitore non solo di storie – che a quello tutti sono buoni – ma di oscuri segreti che il cinema e le parole possono svelare, ognuno con la propria lingua, ognuno con la propria sensibilità, ma entrambi per creare una visionarietà capace di evocare altro. È in questo senso che Caracas diventa un film interessante e sorprendente. Pur con le sue imperfezioni, con il suo stare dentro i nostri tempi nella ricerca di un’estetica che non del tutto sa scrollarsi quella istituita dal decisivo e ineludibile Gomorra di Sollima, sa mostrarci un altro risvolto di Napoli in un sogno ininterrotto e affabulatorio. È in questa evocazione d’altro, in questo sguardo esteso verso una complessità, che Napoli nella sua capacità di assorbire vita sa contenere, che Caracas diventa cinema davvero espanso ed espandibile, racconto infinito guidato da due mentori virgiliani: il peccatore e lo smarrito, Marco D’Amore e Toni Servillo, già uniti da un passato di allievo e maestro e qui quasi in ruoli ribaltati, quasi padre e figlio. Ma se Caracas/D’Amore è il sacrificio per la redenzione Giordano/Servillo, come il Felice Lasco di Nostalgia, è lo smarrimento del senza casa, del senza passato che apre la porta su una Napoli avvolgente e che non può più comprendere, perché Napoli smette di essere città per diventare luogo mitico a metà tra Itaca e Atlantide, tra Gomorra e Troia. Luoghi dai quali non si torna, che non si lasciano mai, che restano per sempre attaccati al corpo e alla mente come un vizio o come un’utopia.