Venezia82 – La fredda nebbia del potere: Il mago del Cremlino, di Olivier Assayas

Uno dei pregi di Olivier Assayas è sempre stato quello di concepire il proprio lavoro di regia e di scrittura come una ricerca dell’origine delle cose. Un metodo che prevede la conoscenza dell’evento e il cinema, la sua materiale realizzazione, diventa lo strumento attraverso il quale si compie la risalita verso il tempo in cui i fatti hanno trovato la loro origine. È questo il metodo del regista, già ultimo erede di quella non dimenticata Nouvelle vague, che ritroviamo in Qualcosa nell’aria del 2012, ma che caratterizza anche il successivo e complesso Sils Maria del 2014 e il suo ideale seguito Personal shopper del 2016 e poi ancora il sottovalutato da critica e pubblico Il gioco delle coppie del 2018. Non si discosta da questo metodo indagatore Il mago del Cremlino, film presentato in Concorso alla 82° edizione del Festival del Cinema di Venezia. Al centro della storia c’è l’immaginario Vadim Baranov, dietro il quale si cela la figura reale di Vladislav Surkov, l’uomo che ha trasformato Vladimir Putin da grigio capo del KGB a nuovo zar della Russia post sovietica.

 

 

Baranov, interpretato da Paul Dano, diventa da astuto produttore di teatro d’avanguardia ed estreme performance di artisti in una caotica Russia post sovietica – dopo una relazione con Ksenija (Alicia Vikander) spregiudicata artista del palcoscenico – vera eminenza grigia del Cremlino e consigliere spin doctor di Vladimir Putin, politico proveniente dal KGB, designato a succedere all’ormai declinante Eltsin. Baranov gestisce l’ascesa di Putin (che nel film è interpretato da Jude Law), la sua strategia è quella di un consolidamento progressivo del potere attraverso gli strumenti, buoni o cattivi, della comunicazione volti a convincere gli interlocutori della bontà di quelle decisioni che appaiono immutabili. Un giornalista americano esperto in cose russe racconterà tutto questo. Il film trae origine dall’omonimo libro di Giuliano da Empoli. La fitta e fredda nebbia che sembra aleggiare sull’incipit del racconto, in quella nevicata notturna che accoglie il giornalista americano che cerca la verità sulla figura di Baranov. Di lui da tempo non ci sono più tracce.  Da quella foschia emerge altrettanto lentamente il profilo di Vadim Baranov che diventa non solo il mentore segreto del giornalista, condensando in un lungo racconto i segreti del potere e i fitti intrighi del Cremlino post comunista. E mostra agli spettatori la metodologia di costruzione del potere: con quali e spregiudicate manovre, decisioni, costruzioni di legami o improvvise fratture si consolidi la quasi solitaria gestione della politica e soprattutto come vada mantenuta nel tempo. Salvandola da ambizioni che covano sotto le ceneri di una falsa adulazione o con il cinismo sprezzante che diventa caratteristica apprezzabile e modalità propria di ogni leader assoluto.

 

 

È in questa falsa democrazia – laddove non è il voto concesso al popolo a dare corpo ai sistemi democratici o almeno non è solo quello – che hanno proliferato quelle forme di potere alimentate inconsapevolmente da quel conflitto, tutto fatto di idee tra forme assolute dittatoriali e sistema democratico, che ha caratterizzato la transizione politica di molti Paesi dell’Est europeo. È qui che va ricercato il senso di un film teso e appassionante, che a volte sembra smarrito dentro un labirinto di modalità tutte estranee alla tensione verso la quale lo sviluppo della storia tende fin dal suo inizio. Assayas sembra risalire la china di questa spigolosa indagine e al tempo stesso scendere dentro quei gironi, sempre più stretti e pericolosi, dove si fanno più stringenti le questioni e più spietate le decisioni. Non tutto, come è noto, avviene alla luce del sole e tutto diventa intrigo e a volte tradimento, sempre vendetta contro gli avversari, in quella gestione lucida e spesso violenta della protezione del potere che diventa protezione della figura di chi il potere lo detiene davvero.

 

 

Dietro tutto questo c’è sempre il pacato e sussurrante Baranov, che non cede mai alle emozioni e non si fa travolgere dalle passioni, freddo come la neve che avvolge Mosca e determinato come chi ha sempre chiaro l’obiettivo e la strategia per raggiungere il risultato. Assayas costruisce un film scritto in collaborazione con Emmanuel Carrère, che su questi temi ha riflettuto con il suo lavoro di scrittore, anche con la biografia romanzata di Eduard Limonov, ambiguo personaggio metà artista e metà politico, oscura figura, amante degli estremismi destrorsi e sinistrorsi, che peraltro compare come personaggio anche in questo film. Il mago del Cremlino non è dunque solo un film, un altro sugli intrighi del potere e sulla sua conquista, non è solo un film sugli equilibri incerti che dominano il mondo, non è certamente un instant movie dettato dalla volontà di cavalcare una cronaca politica che diventa attualità quotidiana. Il film di Assayas in questa sua indagine, che non cede al desiderio di fare spettacolo, pone con lucidità il tema della coltre nebbiosa che ha avvolto e ancora avvolge i nostri giorni e ci fa assistere a quel percorso di smisurata ambizione per raggiungere le soglie di un potere che non si riesce neppure ad immaginare. E quanto sia fragile tutto questo lo scopriranno gli spettatori nelle ultime immagini di questo lucido e appassionante racconto.