

Fahrenheit 11/9 non si discosta minimamente da questa impostazione, anzi, probabilmente si tratta di uno dei lavori meno lucidi e calibrati firmati dal regista, che in più riprese sembra perdere il controllo sulla materia proprio perché spinto dalla furia tanto appassionata quanto cieca espressa all’inizio. Ma con chi è arrabbiato? Certamente con Trump non deve scorrere buon sangue, eppure il film solo in poche occasioni si rivela un atto di accusa nei confronti del neo presidente degli Stati Uniti. Moore vuole capire come la sua elezione sia potuta concretizzarsi e di conseguenza scava a fondo nelle multiformi cause di tale avvenimento mostrando come la responsabilità (o il merito) non sia da ritrovare in un singolo o un collettivo ben definito di persone, bensì in ogni cittadino d’America. Fahrenheit 11/9 diventa così il film più “corale” firmato sinora dal cineasta statunitense, una panoramica vasta ed eterogenea che si concentra tanto sulle falle di un’opposizione debole e assente che ha spianato la strada ai suoi rivali, quanto sulle qualità sorprendenti e incoraggianti di numerosi cittadini nei quali varrebbe la pensa investire per un cambiamento politico. Moore è così arrabbiato che non può permettersi di firmare un film di denuncia senza lasciare spazio alle (sue) speranze del domani. L’unica via per uscire da un tunnel è continuare a scavare, ed è quello che il film si propone di fare: scavare lasciandosi alle spalle il buio e cercare di seguire lo spiraglio di luce che si intravede all’orizzonte. Non importa con quanta foga, lungimiranza, verità o disillusione, l’importante è andare avanti sperando di non dover più invertire le cifre del titolo per realizzarne un terzo capitolo.