In una selva quasi oscura, più che un inferno, un limbo sospeso tra realtà e fantasia, tra il mondo di fuori e quello di dentro: Princess (Orizzonti a Venezia 79) di Roberto De Paolis non sta né nella Roma di sopra né in quella di sotto. Si tiene in uno spazio separato, che non è il caso di definire astratto, perché poi con la realtà ha fortemente a che fare. Ma che segna una ampia linea di confine tra brutture e bellezze del mondo, assumendo il partito preso della vita reale di un gruppo di immigrate clandestine nigeriane, che tirano la giornata prostituendosi nella periferia romana più selvaggia, nei boschi della macchia mediterranea ostiense. E’ qui che si muovono Princess e le sue compagne, con le loro parrucche colorate e improbabili, i vestiti striminziti e il loro italiano inglesizzato con cui contrattano con i clienti. Princess è la protagonista, incarnata da Glory Kevin, presenza senza mediazioni, totalmente fisica nella sua solarità e flagrante nella sua verità: Roberto De Paolis ha composto assieme a lei e al gruppo di immigrate nigeriane la partitura di questo suo film così vivo e autentico, per quanto svaporato in una dimensione quasi favolistica, adagiata sull’ingenuità di questa ragazza che, a differenza delle sue amiche, sembra nutrire una fiducia nel mondo che la spinge verso una vulnerabilità rischiosa. Princess è una presenza quasi eterea, il film la descrive in questo suo ondeggiare tra la monetizzazione ossessiva di se stessa, del suo corpo, del suo tempo e delle relazioni che instaura, e l’idea di essere una presenza astratta, una persona che non abita il proprio corpo, come le ha assicurato la fattucchiera alla quale s’è rivolta prima di partire.
In verità, ciò che rende astratta la sua figura sono piuttosto i personaggi che Roberto De Paolis le mette dinnanzi, presenze di una varia umanità maschile che la usano senza spingere mai la relazione in una sfera volgare, quasi adattandosi alla sua visione edulcorata del mondo, aderendo a una dolcezza utilitaristica che è la formula con cui questa ragazza cerca di stare nella realtà. Tra tutti questi uomini fragili o semplici emerge però il personaggio di Riccardo (interpretato con bel piglio immediato dal bravo Lino Musella), figura quasi angelicata di una umanità non ancora sfiduciata, per quanto lui dichiari di amare più gli animali delle persone. Riccardo è l’occasione che la vita pone dinnanzi a Princess, un possibile amore disinteressato che sgorga da una relazione sincera e occasionale. Roberto De Paolis è molto bravo a costruire questa nube sentimentale a basso tasso di romanticismo, lasciando che la verità della relazione tra queste due figure così particolari si costruisca sulla base di una dimensione terza, né realistica né fantastica, ma spinta nella reciproca empatia di due persone che non hanno un posto concreto nella realtà. Princess, insomma, è tutto in questo gioco liminare della forma narrativa, estetica e umana che individua. Ed è una bella conferma di un autore che, dopo Cuori puri, sceglie ancora una volta per il suo cinema una dimensione realistica differente, che risuona in sintonia con l’interessante percorso “altrorealistico” che certo cinema italiano sta tracciando da qualche anno a questa parte con risultati molto interessanti.