La salvifica potenza dell’immaginazione in Amerikatsi, di Michael A. Goorjian

Film come Amerikatsi sconvolgono i canoni di classificazione del cinema. La sua difficile catalogazione implica che il film sa sfuggire non solo da ogni rigido ordine distintivo, ma anche ad ogni maniacale tentativo di irrigidire ogni opera dentro un casellario fatto di compartimenti stagni. Amerikatsi nella sua eterogenea consistenza filmica e soprattutto narrativa, sfugge anche ad ogni retorica, che pure il racconto avrebbe potuto favorire, ad ogni autocommiserazione e ad ogni altra simile forma di esposizione sentimentale che adombri compassione per la propria condizione. Michael A. Goorjian, armeno d’origine e americano di nascita, attivo nel cinema almeno dai primi anni ’90, ha saputo conservare del retaggio culturale dei suoi antenati, quella naturale leggerezza del racconto nella particolare forma fantastica che sconfina nel fiabesco e che sempre aleggia su ogni testo narrativo delle culture mediorientali. Una caratteristica che diventa pietra angolare per quell’irreale universo che in quei racconti sembra sempre costruito con la materia della fantasia. Una caratteristica che ritorna nel cinema da Iosseliani a Paradžanov, esponenti di spicco di quelle aree geografiche. È l’immaginazione a dettare le regole stemperando il reale, diventando rifugio dai mali del mondo. Amerikatsi oppone al dramma personale, alla tragedia di un popolo, il tocco taumaturgico e benefico della fantasia, oppone quel desiderio di abbattere i muri del reale, quello di vivere altre vite. Tutto diventa, come nelle migliori leggende, una specie di canto solitario che reifica il mondo immaginario lenendo le ferite del presente.

 

 

Parte da queste premesse la fantasiosa storia messa in scena da Goorjian, che sa mantenere quell’equilibrio tra il fantastico e il reale, con il balenare dei richiami storici dal genocidio armeno al tallone di ferro della dittatura comunista. Nell’Armenia stalinista il dittatore ha provato a favorire il ritorno in patria degli armeni dispersi per il mondo. Solo poco più di 300 lasciarono i luoghi che li avevano ospitati per fare ritorno in patria. Tra questi Charlie che viveva in America dopo essere sfuggito al genocidio armeno del 1915 nascosto dentro un baule che riesce ad arrivare negli Stati Uniti. Charlie, felice del ritorno, un giorno salverà un bambino che si era smarrito tra la folla. La madre commossa dal gesto lo inviterà a cena per farlo conoscere al marito che è un generale dell’esercito. La vicenda prenderà pieghe inattese e per Charlie sarà l’inizio di un lungo calvario. Amerikatsi con la sua portata divisa tra biografia familiare e rievocazione di un triste periodo storico, con la sua leggera consistenza, il suo aplomb favolistico, le sue citazioni cinematografiche, tra tutte l’Hitchcock de La finestra sul cortile, diventa anche un potente atto d’accusa contro la violenza del regime. Un regime che apparentemente sembra quello di un’operetta divertente, ma che cela dietro questa satira pungente, quella banalità del male che affligge ogni sistema dittatoriale che viva nella soddisfazione di sé stesso. Solo le mura di quella cella, che per altre ragioni diventerà luogo d’incanto, saranno testimoni delle violenze subite dal malcapitato Charlie sotto i colpi che, settimanalmente, le guardie sovietiche ancorché rimbecillite dal regime, gli infliggono in un rituale tanto violento, quanto inumano. Ma per Charlie esiste un’altra vita, immaginaria e bellissima.

 

 

Come il condannato di La casa in riva al mare di Lucio Dalla, Charlie vive come un felice spettatore, ma anche interattivo, la vita della coppia che abita davanti alla sua cella e ne segue la quotidianità vivendo con loro felicità e i dolori.  Charlie diventa spettatore consapevole di questa serie familiare, di questa soap opera senza interruzioni, di un reality che esiste per davvero. Il film di Goorjian veleggia dunque su acque apparentemente tranquille, che sotto sotto tramano pericolosamente contro questo tratto di traversata della vita. Ma Charlie/Goorjian sa tenere duro in quel difficile equilibrio sospeso nel mondo dell’(ir)reale, tra dramma e commedia, tra incubo e favola. Davvero il cinema trova il linguaggio adatto e insostituibile per sperimentare la salvifica potenza dell’immaginazione, per riportare dentro coordinate sospese tra fuga e reale il cui risultato sembra essere quello di alleggerire il peso di un’esistenza travagliata. Goorjian filma e racconta proprio l’evasione quasi magrittiana dalla cella di un carcere duro e nel suo salvifico surrealismo quotidiano il cinema diventa l’ambiente naturale dentro il quale dare corpo allo spettacolo che solo il multiverso del cinema ci fa non solo immaginare, ma riprodurre in una infinita gamma, ciascuna buona per ogni salvezza.