Un film su Cinema e Memoria, lo definisce nelle sue note Cristi Puiu. Il che può apparire strano, se si considera che Malmkrog (ora visibile su RaiPlay) è un oggetto filmico che resta scolpito nella sua stentorea staticità, ovvero nella dimensione quasi monolitica della visione scenica e nella concezione quasi cubitale del dialogato, che sono la struttura portante della narrazione. Sarà che Malmkrog, nelle intenzioni dell’autore, è soprattutto un film in cui è proprio il suo rapporto con la messa in scena dello spazio storico a determinare una formulazione del fare cinema come memoria: l’idea di un cinema in costume che affronta questioni filosofiche che nascono da un argomentare di fine ‘800 e si spingono, intatte nella loro basilare problematicità, sino ai giorni nostri. Compresa quella condizione claustrofobica stretta addosso ai cinque protagonisti (contenuti per 200 minuti nel perimetro di una magione), che dialoga impropriamente con i nostri vissuti attuali, da spettatori in piena pandemia. Con tutte queste premesse, la sfida che Malmkrog pone è quella di un film di pensiero, in cui la forma del kammerspiel si assume il peso di cristallizzare l’astrazione in uno spazio che disegna il rapporto tra posizioni e opposizioni, seguendo linee geometriche fisiche, che intrecciano corpi, spazi scenici e posizioni di ripresa, ovvero ruoli, stanze e linee prospettiche. Il punto di partenza è offerto dall’adattamento dell’ultimo libro del pensatore russo Vladimir Soloviev, “Tre conversazioni” (pubblicato in Italia nel ’51 col titolo “L’avvento dell’Anticristo”). Soloviev è stato una figura emblematica del rapporto tra razionalismo occidentale e fideismo della tradizione cristiana ortodossa, e il film diviene dunque un sempre più intenso e cupo confronto tra l’ordine delle cose e la percezione di un caos emergente che dissemina il dubbio per raccogliere tempesta.
Tutto il film sembra rispondere a una ratio fantasmatica, tanto immanente quanto rigorosamente fuori scena, un po’ come la figura di Nikolai, il vecchio aristocratico padrone di casa, che giace a letto malato ma che è nondimeno il punto d’origine di quella adunanza di figure differenti che, tra salotto, sala da pranzo e giardino, si ritrovano a disquisire e argomentare su questioni tanto astratte quanto basilari nella definizione storica e reale del loro mondo. Il presupposto è squisitamente letterario e filosofico e Cristi Puiu non lavora certo di surrealismo nel maneggiare l’impianto, né tanto meno di realismo: il convivium raduna figure destinate a incarnare differenti sfasature di quel tempo storico a termine che Soloviev, nel suo sforzo di sintesi tra misticismo e razionalismo, mirava a delineare nel suo testo. Le geometrie dialogiche intrecciano allora le posizioni di un giovane politico, di una contessa, di un generale russo e della moglie: la discussione parte dalla contrapposizione tra la visione ortodossa e quella cattolica del cristianesimo, arrivando a confutare l’equilibrio tra Bene e Male, comunemente accettato. La tensione, che diventa sempre più palpabile nell’apparente ordine sociale dettato dalla situazione, diventa uno strazio della forma logica adottata come posa in opera sia dello sviluppo narrativo che del suo senso. Ed è tanto insistente il senso di una furia irrazionale, storica, imminente, che Cristi Puiu si concede a un certo punto un magnifico atto quasi astratto e irreale, una meravigliosa esplosione di furia fisica concreta, consegnata alla sequenza dell’irruzione del popolo in rivolta nella magione, che mette a soqquadro ogni cosa per poi andare via e restituire ai conviviali il loro spazio, di nuovo intatto ma ormai irrimediabilmente violato dall’irrazionalità della Storia. È lì che si rompe l’impianto ossessivo dell’adunanza di punti di vista imposto da Puiu al suo film, il confronto forzato di identità che agiscono ognuna secondo la propria ragione, l’intreccio di focali esistenziali che si apre alle geometrie opposte nello spazio chiuso della “convivialità”. Sembra quasi che Cristi Puiu abbia preso questi elementi tipici del suo cinema (si pensi, per esempio, al suo precedente film, Sieranevada), per applicarli a questo film spinto nel tempo della Storia, eppure ancorato irrimediabilmente al bisogno di sintesi che il nostro presente richiede con sempre più flagrante urgenza.