La Storia ci esalta e ci tradisce, la idealizziamo toccandola con le pinze delle ideologie e poi ci lascia immancabilmente soli quando si fa sera e Il sol dell’avvenire tramonta dietro l’orizzonte degli eventi… Cos’è tutta questa finta euforia che pervade ogni inquadratura dell’ultimo film di Nanni Moretti? Cos’è questo perenne sgranare gli occhi e intingere i visi in una smorfia di sorriso? Forse la matrice di un’umanità che idealizza quei “se” con cui la Storia non si fa e si ritrova paralizzata nell’indifferenza del presente? Magari stretta attorno al Dottor Zivago, come accadeva in Palombella rossa, a tifare per un improbabile lieto fine che non verrà mai. O forse è la maschera della perenne atellana morettiana, infine esplicitamente indossata da Nanni per dar corpo al suo alter ego Giovanni in questo tardo remake (non dichiarato) di Sogni d’oro? Di certo è la chiave di volta di un film che, ridendo e scherzando, attraversa la solitudine finale di una magnifica parabola creativa, unica nel cinema italiano per la capacità di liberarlo dall’ossessione della commedia tanto quanto dal bisogno di realismo e dalle nevrosi autoriali, bazzicando ognuno di questi ambiti con geniale irriverenza… Quel che è certo è che, se Nanni Moretti è l’eccezione della regola italiana, Giovanni, il regista protagonista di Il sol dell’avvenire, è la sua affermazione ultimativa: a differenza del Michele Apicella di Sogni d’oro, non sta girando un film su Freud e nemmeno un musical sulla rivoluzione russa, ma quasi…
Il suo ciak batte infatti sul set di un quartiere popolare dell’Italia del ’56, dove svetta la tenda di un circo ungherese, invitato dal fervente segretario della locale sede del PCI (Silvio Orlando) proprio mentre Budapest è in rivolta e i carri armati sovietici irrompono in città. Il film sulle irresolutezze freudiane potrebbe in realtà girarlo la moglie e produttrice di Giovanni, Paola (Margherita Buy), che da uno svaporato psicanalista ci sta segretamente andando per trovare la forza di separarsi dal marito. Il quale nel frattempo vorrebbe scrivere un film tratto da Il nuotatore di John Cheever che lo riconnetta col flusso di coscienza dell’amniotica piscina, e però finisce col galleggiare sul suo set, immaginando di girare un musical con canzoni italiane (da Tenco a Battiato, manco a dirlo…) che diano un senso a tutto quel filmare il passato, mentre il suo presente si sta sgretolando in una crisi matrimoniale e produttiva che lo lascia impotente. La soluzione di (dis)continuità arriva col carosello finale, visione felliniana da quarto stato morettiano, immaginato da Moretti in seconda battuta (come confessato alla stampa) per porre il sigillo a tanta affollata solitudine e sereno scoramento con un liberatorio tutti in scena. Una marcia degli eterni amici, di quel coro familiare che insiste sullo spicchio di terra rivendicato dal regista per se stesso e per il suo cinema. Al fondo di tutto, la materia resta quella della paura della solitudine, del timore di ritrovarsi solo con l’angoscia delle proprie manie: eterno flusso carsico del cinema morettiano, che irrora tutto quel giocare a “fare Moretti” che tanto amiamo e che Moretti stesso sembra ormai sbeffeggiare.
La sovraesposizione del morettismo che schiaffeggia ogni linea drammaturgica – commediale o drammatica essa sia – di Il sol dell’avvenire sembra quasi la reazione parossistica di quella narcisistica allergia a se stesso che Moretti da sempre incarna per descrivere, nel sottofondo, lo smarrimento, la solitudine, il dolore, il bisogno di fuga della sua umanità. Questo è un film più sordo e sensibile di quel che il suo vezzeggiare mostri: il suo tracciato oscilla tra la comunione degli spazi finti del set e la solitudine di una coscienza che non riesce più a prendere sul serio nemmeno il sogno dell’ideologia. La fine della Storia coincide con la storia di una Fine che si incarna nella solitudine estrema del regista, rimasto solo davanti alla macchina da presa, senza nemmeno poter più stonare un grido d’aiuto… Si marcia tutti insieme, un po’ zombi un po’ quarto stato residuale e un po’ tardi girotondini, sullo sfondo dei resti di un impero che è stato culla di democrazia. In faccia il sole di un’alba che non ha narrazione: a chi, sul set bloccato, gli chiede cosa si fa, il regista non sa rispondere, prigioniero nell’incantesimo di un’impasse che lo trova sbalordito, impreparato, disinteressato e anche un po’ sollevato. Qualcuno, tra le maglie del suo film ha imparato ad amarsi (la Bobulova, controfigura della non convocata Laura Morante…), qualcun altro è scappato con la cassa (Mathieu Amalric), la moglie Paola ha preso la strada della realtà, la figlia infrange con Jerzy Stuhr le consuetudini anagrafiche dell’amore…Se nel ’56 Togliatti avesse rotto con l’Unione Sovietica la nostra vita sarebbe stata migliore? Chissà. Certo è che, per arrivare lì dove sorge il sol dell’avvenir, bisogna passare per dove fischia il vento e infuria la bufera. Anche se le scarpe sono rotte…