

Il film non prevede redenzione, innalza l’iconografia rambesca come una bandiera logora, la pianta in territorio nemico con fervore che si potrebbe ritenere trumpiano, se non ci si soffermasse un attimo a riflettere che, in fondo, John Rambo è in trasferta a Tijuana per salvare una ragazza messicana dalla sua stessa gente che la sta tradendo e vendendo: destino che ricorda quello che era appartenuto a lui, figlio dell’America tradito dalla stessa America… E allora questo John Rambo che, invece di erigere muri sul confine, incide la terra in cui vive, scava tunnel sotto la sua stessa casa, come facevano i vietcong, per nascondersi e combattere, è l’emblema di un guerriero che ancora una volta si spinge oltre il limite per salvare la parte buona di se stesso. Peccato che poi questa disposizione progettuale Rambo Last Blood non riesca a portarla sullo schermo quasi mai, per quanto sia ben presente nel concept complessivo: basta guardare le immagini promozionali per cogliere la precisa volontà di citare letteralmente pose e iconografia del John Wayne terminale, salvo poi non ritrovare sullo schermo questa medesima tensione in nessun fotogramma. Adrian Grunberg non riesce mai a definire graficamente la presenza di John Rambo alla sua stanchezza, non supera la grossolanità da straight to video delle scene d’azione, la banalità stolida dei vilain messicani. La stessa sottomissione di Rambo alla necessaria sconfitta, che prelude alla riscossa, versa un sangue che non porta dolore né sofferenza. Grunberg non sa che farsene di questo eroe martoriato e Stallone compie l’errore di
non rendersene conto. Che questo sia davvero l’ultimo sangue di John Rambo appare probabile, almeno per il corpo eroico di Sly. Vedremo ora se il progetto di narrarne in futuro la prima ribellione di John Rambo, quella adolescenziale, resterà in piedi dopo un tale esito.
