La visibilità manifesta, ma non esibita, dell’annientamento della civiltà in Atlantis di Valentyn Vasyanovyč

È questo il modo in cui finisce il mondo
È questo il modo in cui finisce il mondo
È questo il modo in cui finisce il mondo
Non già con uno schianto ma con un lamento.
Da Gli uomini vuoti, T.S. Eliot, 1925

 

A rivederlo oggi, dopo tre anni dalla prima volta al Festival di Venezia 2019, dove vinse il primo premio nella sezione Orizzonti, Atlantis sembra abbia solo preconizzato i tempi e la sua distopia immaginata in un futuro vicino, il 2025, diventa oggi sconcertante e tragica cronaca e soprattutto di una, non immaginabile, cronaca di guerra. Nell’apocalittico scenario di una guerra tra russi e ucraini nel Donbass, Sergeij lavora con una organizzazione che si occupa di recuperare i cadaveri del conflitto. Tornato dal fronte con uno stress post-traumatico, fatica a ritrovare una propria dimensione in una realtà profondamente mutata. Solo il rapporto con Katya potrebbe salvarlo. Valentin Vasyanovyč ci ha abituato al suo sguardo davvero disperato e anticipatorio sia con questo film, sia con il successivo Reflection, uscito in Italia di recente, nel quale, riprendendo il filo narrativo di Atlantis, il regista ucraino torna sul tema del conflitto tra le due nazioni per ragionare sulla violenza della guerra e, nonostante questa, sulla ancora vita possibile. Vasyanovyč sembra avere doti divinatorie, ma forse più semplicemente la sua costituiva solo una proiezione del possibile scenario futuro vicino e incombente. Il cinema diventa un ottimo strumento per dare manifesta consistenza anche ad un presagio che diventa imminente e che sovrasta ogni altra ipotesi di soluzione.

 

 

 

Ma là dove Reflection sembrava indugiare con lo sguardo su una perversa violenza, trasformando la messa in scena in una sua esasperata ricerca estetica che la potesse mostrare in tutta la sua disumanità, in questo precedente Atlantis la ricerca del profondo senso apocalittico che pervade le immagini, diventa sguardo sgomento sui resti dopo una catastrofe. Non c’è bisogno di didascalie per ricondurre i piani sequenza del film ad una pietosa ricostruzione della vita in un paesaggio che sembra già in sé la sconfitta per ogni umanità, a prescindere da chi sia il nemico, da chi sia il vincitore e chi il vinto. Vasyanovič per dare forma alla sua (e nostra) apocalisse visiva lavora esclusivamente sulle immagini, nelle quali riduce la vita ad una essenzialità quasi trascurabile, illividendo paesaggi già in sé respingenti, annullando nella sola sensibilità del calore i corpi dei personaggi, che, catturato dai recettori, ci è restituito nel colore irreale e grossolano che definisce appena le sagome, o attraverso la gelida consistenza di una pioggia insistente che riduce in fango indefinito il paesaggio. Vasyanovič finisce con il mostrare un panorama irriducibile ad altre coordinate, se non a quelle di un annientamento di ogni civiltà e lo fa in una visibilità manifesta, ma non esibita, in una prospettiva di supina rassegnazione. Sono rassegnati ad una sopravvivenza i due protagonisti in quello scenario che rende oggettivo il male della guerra e che per noi oggi, purtroppo, non è solo immagine filmica, ma cronaca vivente.

 

 

Uno sfondo nel quale il valore della vita si annulla e quello della morte diventa un freddo elenco descrittivo per una irriconoscibile e mummificata carcassa ridotta a fango. Uno sguardo impietoso e freddo, necessariamente distaccato nei piani sequenza ortogonali alla scena che il film propone. Un ulteriore passo nella descrizione di questo male causato dalla guerra peggio che in Johnny prese il fucile. Al contempo Sergeij, testimone e disperato protagonista, è quello che resta di lui dopo il conflitto. Vasyanovič lavora su questo grande fondale post-bellico e il suo film, in quelle immagini in cui lo sgomento si unisce ad un tempo che sembra eterno, ma senza albe, né tramonti, sembra voglia assorbire quella parte di vita che la terra può offrire. Ancora una volta è la meditazione dei lunghi piani sequenza ad annullare le speranze e solo un timido finale sembra possa riconsegnarci uno modesto slancio di speranza. In Atlantis regna quasi sempre il silenzio rotto dai rari ed essenziali dialoghi o dalla fredda elencazione descrittiva di ciò che resta del corpo durante l’autopsia, un silenzio che domina la nuova Atlantide, la terra sconosciuta, oggi in questo futuro incombente, opposta a quella mitizzata del passato. Un futuro che sembra dare corpo a quella profezia di inizio secolo ‘900 di una terra desolata e degli uomini vuoti e impagliati.