Il comune in cui si svolge la vita raccontata da Edoardo Winspeare nel suo sesto lungometraggio è quello immaginario di Disperata, che già nell’assonanza del nome richiama Depressa, dove il regista austro-salentino è cresciuto. Ma il cambio non è solo propedeutico a evitare riferimenti troppo diretti, perché l’intento è chiaramente allegorico rispetto a un certo tipo di realtà dell’entroterra meridionale e pugliese: un luogo che definisce una sorta di “bolla”, in attesa del miracolo, come già la Taranto del piccolo Tonio nel 2003. Stavolta, a definire i rapporti affettivi e i legami che interessano all’autore, c’è un gruppo di variegata umanità: due fratelli, Pati (Claudio Giangreco) e Angiolino (Antonio Carluccio), l’uno riscopertosi poeta dopo la galera per una rapina finita male, e l’altro sempre in cerca del “colpo” giusto per svoltare, nonostante la ferrea devozione a Papa Francesco. Poi c’è Eufemia (Celeste Casciaro), sanguigna consigliera comunale nonché ex moglie di Pati, che non crede alla svolta poetica dell’uomo; e infine Filippo Pisanelli (Gustavo Caputo), che è il collante fra i personaggi e il luogo, sindaco di Disperata e insegnante di poesia in carcere. Un uomo a sua volta fuori dal tempo, chiamato a decidere il destino della sua comunità, ma al contempo poco incline alle diatribe del Consiglio, poeta perché capace di afferrare il bello, ma forse inadatto al ruolo di governo. O forse no: perché la vita in comune auspicata da Winspeare è quella capacità di un mondo così sospeso di farsi comunità anche attraverso le reciproche divisioni.
Il regista osserva questo microcosmo con l’affetto di chi è interessato sinceramente alle possibilità ispirate dalle relazioni umane e da quell’attesa perenne dell’evento di snodo, qui rappresentato in parte dalla telefonata di Papa Francesco allo stesso Angiolino. Evento “esterno” che apre una prospettiva inedita nel tessuto sociale, ma allo stesso tempo rilancia le convinzioni radicate e il senso di appartenenza a una fede incarnata dallo spazio del paese. Perché Winspeare crede a quello che racconta, ma allo stesso tempo ha il garbo un po’ stralunato del suo sindaco, che vuole creare ponti laddove potrebbero sorgere divisioni. Fra i cittadini, fra le coppie che si sono lasciate, fra il paese e la politica, e fra gli uomini e gli animali nel poetico finale che stabilisce l’incontro con la foca monaca. C’è una levità nel raccontare tutto questo che è sempre a un passo dall’angoscia per un equilibrio avvertito come inevitabilmente fragile e destinato a una svolta: d’altra parte, le storie di Winspeare sono sempre cammini sulla soglia, resoconti di quel momento in cui si è ancora al di qua, ma già si profila la possibilità di un dopo e si è indecisi fra il cambiamento e un noto che non è conforto quanto frontiera ancora non del tutto esplorata. Le svolte sono perciò iscritte nelle singole vite dei personaggi, Angiolino diventerà onesto, Pati è novello poeta, Eufemia potrebbe tornare con l’ex marito e Filippo sarà esautorato dalla carica di sindaco. Sullo sfondo di questa bolla, inevitabilmente, il dibattito politico e culturale di una Puglia che negli ultimi lustri è andata incontro a profonde trasformazioni e rischia perciò di smarrire la propria identità. Winspeare vuole catturare la sua atavica immobilità di “prima”, che in alcuni punti è ancora un “adesso”, e affida la sua capacità poetico-affabulatoria al cinema, quello in cui prenderà forma il film di Angiolino, e in cui non nascerà una nuova storia d’amore. Il tutto con una certa naiveté che rende il film delicato e prezioso, una voce cortese in un cinema italiano spesso troppo enfatico e smanioso di ritagliarsi la sua visibilità. E attraverso questa pacatezza, il film descrive un interessante punto di snodo nella poetica dell’autore, che sembra prendere le distanze dalla pulsione drammatica del precedente In grazia di Dio, qui evoluta in un piacere dello stare al mondo anche sorprendente, considerata la natura fittizia di Disperata e la qualità più fiabesca delle atmosfere.