Torino 38 – La vocazione all’indugio in Nuovo cinema paralitico di Davide Ferrario e Franco Arminio

Guarda ogni cosa
come se fosse bella.
E se non lo è
vuol dire che devi
guardare meglio.
Cerca paesaggi
onesti e chiari
ora che le persone
sono incomprensibili.
Considera che la cosa
più difficile è guardare
una cosa qualsiasi
in un giorno qualsiasi.

Franco Arminio

 

 

Si tratta di una vera e propria vocazione all’indugio, quella dei due autori, in linea con quanto scrive e dice Arminio in un monologo di uno dei brevi film che compongono il progetto. Il paesologo – come ama definirsi – scrittore e poeta Franco Arminio e il regista e scrittore Davide Ferrario hanno elaborato il progetto cinematografico al quale hanno dato il titolo tra il provocatorio e il riflessivo di Nuovo cinema paralitico con l’intenzione precisa di cercare il bello anche là dove il bello non si vede, ma solo perché bisogna guardare meglio, come ci suggerisce Arminio nella sua poesia. L’idea dalla quale nasce il film è  stata perfettamente spiegata dai due ideatori mesi fa sulle pagine del Corriere della sera e il tema è quello legato ad un sincero interesse per le realtà considerate minimali. La macchina da presa di Ferrario e le parole di Arminio vivacizzano luoghi marginali, dimenticati e perfino “dimenticabili”, i posti che Marc Augé chiama terzo paesaggio, luoghi di risulta, perfino, nati tra edifici improbabili o panorami insignificanti, dove apparentemente nulla accade, dove altrettanto apparentemente la vita è assente o sembra essere assente.

 

 

È in queste situazioni che i due autori cercano e trovano (ma sarebbe meglio dire scovano) in quella specie di nulla inventato, forme di vita invisibili, che non si manifestano se non nella distratta visibilità dell’attimo. Il cinema ne ferma e ne valorizza, invece, l’immagine, l’impercettibile contenuto, riscoprendo un’altra sua destinazione, quella che si prende carico di trascrivere fedelmente realtà invisibili e rifiutate. Solo il cinema può condurre a queste conclusioni entrando nello scenario dell’invisibile, trasformando in spettacolare l’apparentemente banale. È la conferma del valore del dispositivo, che sappiamo essere insostituibile per restituire senso e misura non più marginale, ma centrale a ciò che giudichiamo privo di interesse. Un’operazione che esalta l’acquisita sapienza dello sguardo del cineasta, abituato a selezionare l’immagine, a filtrarla in funzione delle proprie necessità. Qui, invece, il suo sguardo diventa onnicomprensivo, costante e scrutante, adattandosi, con autonoma efficacia, alle esigenze del poeta, rispettando le necessità di questi, immagazzinando forme di vita, apparentemente spente, per restituirle a quella vitalità che hanno sempre conservato e che solo l’imperdonabile distrazione ci ha fatto sottovalutare e dimenticare. Una riflessione che si dirige nella stessa accezione già tema delle riflessioni di Vito Teti soprattutto nel suo Il senso dei luoghi, ma in fondo, argomento costante di tutta la saggistica dell’antropologo calabrese. Lo sguardo di Arminio e Ferrario, come quello di chi ha già riflettuto sulla resistenza dei luoghi, anche quelli abbandonati o nati da una cattiva interpretazione del ruolo dell’uomo, diventa anche sguardo che, riscoprendo l’identità, contribuisce ad un processo di riappropriazione, che coincide con la restituzione di un valore e non più di una mera espressione topografica. È per tutte queste ragioni che l’originale operazione cinematografica si preannuncia come un non trascurabile banco di prova per la strana coppia di artisti. Ma contribuisce anche alla rifondazione di un sentimento nuovo volto a consolidare, in tempi di pandemia e di paure, un cinema del tutto lontano da ogni inclinazione che volga lo sguardo verso l’attualità della cronaca, per rivolgersi all’attualità delle necessità. Questa sommessa cantata per l’Italia dell’ultimo banco lontana da ogni sperimentalismo underground, costituisce uno strumento di decodificazione anche del presente e quindi una bella sfida artistica. Una sfida con la quale, ancora una volta, si prova a cogliere un’altra possibile manifestazione di quell’essenziale splendore del vero che il cinema sa fare apparire improvviso e per inattesi bagliori. È interessante indagare sull’alchimia che il duo di artisti ha messo in opera. Da una parte Arminio legato ad un mondo sicuramente arcaico, lontano da ogni stupore per le innovazioni tecnologiche e, come dichiara egli stesso, non amante del cinema di fiction e scarsissimo frequentatore di sale cinematografiche; dall’altra Ferrario, uomo di cinema a tutto tondo già critico e oggi regista e quindi in ogni caso sensibile ad ogni innovazione che possa offrire maggiore efficacia al suo lavoro. Una coppia apparentemente improbabile, che soltanto la chimica della (bio)diversità sa fare funzionare perfettamente nel restituire linfa autentica a questa anticipazione che oggi è visibile in rete del lavoro definitivo. Un assaggio che arriva, sicuramente non casualmente, in questo tempo così diverso che induce e alla meditazione, anche sulla vita di ciascuno, sulla mutazione profonda che questo tempo ci obbligherà a praticare, trasformandosi anche in viatico sufficiente per un ritorno ad una diversa normalità.

 

 

Luoghi rotti, L’Italia dell’ultimo banco, Piazze, Alberi e campagne, Paesi, Teatri, Luoghi sacri, Periferie e Acque sono titoli che riflettono, con perfetta adesione al contenuto il rapporto che i due autori hanno saputo istituire con i luoghi di un’Italia di periferia, ma non per questo marginale, piena di un vuoto solo apparente in cui il disegno che l’immagine di Ferrario sa compiere, insieme alle parole di Arminio, fanno assomigliare gli scenari ad tranquillizzante giardino zen in cui meditare pur in mezzo alle rovine. Ferrario ed Arminio riportano il cinema e la parola, nella loro dimora minimale, l’occhio dell’obiettivo si prende carico di curare la conservazione del risultato.