L’arte della gioia: la serie di Valeria Golino da Cannes 2024

Nella Sicilia rurale di inizio Novecento, Modesta – nome antifrastico, data l’evoluzione del personaggio – è una ragazzina figlia di poverissima gente, già abituata alla varietà delle forme naturali, alla non conformità da una sorella con, si direbbe oggi, una disabilità cognitiva. Modesta non ha nessun’arma per difendersi dal contesto latifondista e patriarcale in cui è nata, e tantomeno per scalare la società, se non la propria intelligenza e l’istinto di sopravvivenza, che, per sua fortuna, sviluppa molto presto. Giovane donna in fiamme, gradevole alla vista, è un’istintiva, una conquistatrice, esplora in modo empirico (“ho sempre rubato la mia parte di gioia a tutto e a tutti”, sintetizza il trailer della serie): parole, poesie, idee, note musicali, persone, cose. Tutto ciò che sa di desiderare. Nel romanzo omonimo di Goliarda Sapienza, già dalle primissime righe Modesta fa la sua prima esperienza di autoerotismo: “…scoprii, toccandomi là dove esce la pipì, che si provava un godimento più grande che a mangiare il pane fresco, la frutta”. E così anche il primo dei sei episodi di L’arte della gioia entra in medias res: stuprata dal padre e sopravvissuta a un incendio che ne azzera la famiglia, la protagonista viene affidata alle suore di un convento e quindi alla nobile famiglia Brandiforti, dove prosegue il suo svelto, bruciante apprendistato delle cose del mondo.

 

 

Ci fermiamo qui con la trama, per non privare chi legge della sorpresa delle sue scoperte e azioni. Che saranno molte e che Modesta affronta con una naturalezza matura, un distacco a-morale, inteso come immune da ogni sovrastruttura, condizionamento, senso di colpa o delle regole. La sua sete di conoscenza trova un corrispettivo assai convincente negli occhi curiosi e infuocati di Tecla Insolia (La bambina che non voleva cantare di Costanza Quatriglio, 5 minuti prima di Duccio Chiarini). La punta di diamante di un cast meraviglioso scelto dalla regista insieme ad Annamaria Sambucco e Massimo Appolloni e diretto con finezza. La trattenuta, Jasmine Trinca, mai così inquietante. Valeria Bruni Tedeschi, terrorizzante ed esilarante nella stessa scena, forse nel suo ruolo di carriera. Il magnetico, controllatissimo Guido Caprino. Alma Noce infantile e inconsapevole. Una gioia per lo spettatore, per il loro senso della misura e del rispetto per il testo. I sei episodi di L’arte della gioia di Valeria Golino sono attualmente distribuiti nelle sale in due parti da Vision Distribution (ep. 1-3 dal 30 maggio, ep. 4-6 dal 13 giugno, il quinto diretto da Nicolangelo Gelormini) e il consiglio è ovviamente di vederli sullo schermo più grande possibile. La serie arriverà dopo l’estate su SKY / NOW TV, a seguito dell’anteprima mondiale del primo incandescente episodio al Festival di Cannes. Al Festival, che aveva già selezionato in Un certain regard i precedenti film di Golino, Miele (2013) ed Euforia (2028), l’attrice e regista ha tenuto una masterclass in conversazione sulla sua prima serie con la giornalista di Télérama Guillemette Odicino, dichiarando di voler di fare “della tv che sia anche cinema e del cinema che sia anche tv”.

 

 

Per tradurre in immagini un romanzo esplicito e sovversivo, che alterna in modo spericolato prima e terza persona, Golino e i suoi sceneggiatori Valia Santella, Francesca Marciano, Luca Infascelli e Stefano Sardo hanno affrontato un processo di scrittura complesso, durato due anni e mezzo. È scelta audace, che colpisce e lascia ammirati, perché l’opera di Goliarda Sapienza è un romanzo “maledetto”. Così lo ha definito Angelo Pellegrino, secondo marito della scrittrice e curatore del libro (il primo era stato Citto Maselli) nella prefazione alla prima edizione Stampa alternativa del 1997. Iniziato nel 1967, lavorato per due decenni, fu rifiutato dalle case editrici perché troppo esplicito, libero, inclassificabile. Finalmente edito prima in Germania, poi in Francia e solo successivamente in Italia, prima che l’autrice, scomparsa nel 1996, potesse vederlo. Così l’atto creativo radicalmente femminista di Golino e della sua troupe si afferma chiaramente come un gesto di restituzione, rivendicazione. E il romanzo, come una time capsule, trova la sua forma cinematografica quasi trent’anni dopo la morte della sua autrice, dimostrando tutta la sua laicità, nel parlare al pubblico di oggi anche con sguardo in macchina e sentenze a effetto, come “si può amare un uomo, una donna, un albero e forse anche un rospo, che non si sa mai”. 

 

 

La serie di Golino rielabora, tradisce, traduce e in qualche modo dà alla luce l’opera più nota di Sapienza, lo porta un’altra volta alla vita. L’esperimento è appena iniziato, perché i sei episodi indagano solo la prima delle quattro parti di cui il romanzo è composto (e mentre la scrittura di una possibile seconda parte è in lavorazione, Golino interpreterà Goliarda Sapienza in Fuori, l’imminente film di Mario Martone, che dell’autrice ha già portato a teatro Il filo di mezzogiorno). Ogni elemento della messa in scena è estremamente curato e con questa ricercatezza lavora splendidamente per permettere a chi guarda di aderire alla storia, piena di colpi di scena, scabrosità, strappi, lampi di ilarità e concessioni anche horror – l’uscita di scena di suor Leonora, le urla del deforme principe Ippolito, l’abito da sposa di Modesta che avanza come un fantasma nella notte, le apparizioni dei morti in un paesaggio verde visto in corsa. Tutto cucito come da un filo invisibile grazie a Giogiò Franchini, mentre la fotografia filologica e chiaroscurale di Fabio Cianchetti immerge in una luce e soprattutto in un buio finalmente corrispondenti a quelli dell’epoca ritratta, e il lavoro di Maria Rita Barbera e Luca Merlini guarda con competenza a Il Gattopardo, facendo recitare abiti e ambienti. L’insieme è di un’eleganza innata e soprattutto funzionale al principio stilistico che sembra guidare Golino, qui come nei film precedenti. Quello di fare un cinema che esalti il sensoriale, in un’esplosione di percezioni che, parimenti a quelle intellettuali, sono misura del mondo: sentire la profondità di un pozzo come quella di una bocca, una pioggia battente a cui esporsi a corpo nudo, la prossimità con animali da compagnia, liberi e costretti in gabbia, la spasmodica ricerca del mare. 

 

 

Golino celebra ad ogni inquadratura la vita sulla morte: insinuandosi tra le relazioni pericolose di una famiglia aristocratica, colta e malata, la svantaggiata Modesta è portatrice della prima e testimone della seconda. Anche per via della parentesi della “spagnola”, che la regista ambienta con tocchi che ammiccano alla recente esperienza pandemica. Tra autodeterminazione, tòpoi da romanzo d’appendice, cenni di conflitto di classe, Golino riscopre e fa suo un testo illuminante. Con forte gusto per la narrazione e per tutto ciò che esiste e coesiste: il deforme e il bello, tragedia e risata, oppressione e liberazione. È un cinema che pulsa di energia naturale, possibilità e pansessualità. Di quel che non si sa mai, che sempre sfugge, come l’allitterazione di Parola (Anna Caragnano e Donato Dozzy) e delle immagini sfuocate sui titoli di testa e coda. Prodotta da SKY Studios e da Viola Prestieri per HT Films, L’arte della gioia di Valeria Golino è la prova eloquente che esiste una via originale, non conformista e di alta qualità per la serialità italiana. A patto di volere e sapere rischiare.