Philippe Garrel crede ancora in un cinema fatto di elementi filmici essenziali, di funzioni primarie del vivere: innamoramenti inattesi, carezze, baci, appuntamenti al bar, tradimenti, pentimenti… Un cinema filmato in bianco e nero (Renato Berta, naturalmente), perché non ha bisogno di colori per cercare la sostanza che gli interessa, piuttosto lavora sulle mezze tinte inattese delle emozioni, sulle attese di chi si pone in ascolto dei sentimenti, romanticamente. Non c’è nemmeno più bisogno di credere alle sue storie (d’amore), che si pongono un po’ come schemi intransitivi, dati a priori, con l’essenzialità serena di chi guarda alla sostanza delle cose, stufo di dover spiegare ciò che già sappiamo. Basta affidarsi alla narrazione in quanto tale, al di là della verità o sincerità del dire, seguendo lo schema di chi “conosce la canzone”, per dirla alla francese… Le sel des larmes – un altro dei fantastici titoli celibi garrelliani, pura sonorità emotiva – è la posa in opera del suo cinema al di fuori del tempo: una storia d’amore sospesa tra Parigi e la provincia, in transito tra le origini del sentire e il mondo che ci viene incontro con la sua complessità. Una storia d’amore giovane, che si affaccia alla vita: ecco Luc, ebanista di provincia, ragazzone bello e semplice, limpido nel suo approccio al mondo appreso dall’anziano padre, che gli ha insegnato l’arte e le cose che contano del mondo – guardare il cielo in una notte stellata, per esempio… Ed ecco i suoi tre amori, che si intrecciano col suo rapporto con Parigi, dove arriva per seguire i corsi di un importante istituto professionale: ce n’è uno per ogni stagione della vita… Djemila, che incontra alla fermata del bus appena arrivato in città, è come fosse un innamoramento adolescenziale, quello che si tradisce subito ma non si dimenticherà mai. Poi Geneviève, che ritrova dopo anni, una volta tornato a casa dal padre, e che accende la passione, finendo per occuparlo con il suo bisogno di lui e con l’assolutezza dei sentimenti che richiede. Allora la fuga verso Parigi, di nuovo, dove finalmente i corsi sono iniziati e dove trova Betsy, che è la passione, la libertà dei sentimenti, la confusione delle emozioni, con quell’amore a tre che gli propone portandosi a vivere con loro un suo altro amore che non sa lasciare…
Siamo in pieno regime garrelliano, insomma, Le sel des larmes è un tracciato regolare, corrisponde alle tante ferite interiori che questo regista ha lasciato cicatrizzare nel tempo e porta docilmente il suo cinema in direzione di un narrare piano, puro, si direbbe quasi rohmeriano per l’ordine che impone alle cose, per quella voce narrante fuori campo che descrive i passaggi narrativi e i paesaggi interiori del protagonista. Una storia di formazione, in cui Luc sembra quasi un adulto in ritardo su se stesso, un giovane ancora adolescente nel suo dialogo con il vecchio padre. Che è interpretato dal formidabile André Wilms, il quale offre risonanze kaurimakiane (ricordate Miracolo a Le Havre?) a questo vecchio saggio, che porterà il figlio a capire il vero sale delle lacrime e dunque della vita, facendo scivolare il piano della realtà interiore di Luc tra i due poli del legame e della dissoluzione, della presenza e dell’assenza – sì, insomma, dell’amore e della morte, inutile girarci tanto intorno… È un film della maturità tarda, Le sel des larmes, della scoperta dei valori reali, profondi, autentici: sembra quasi che Garrel lo abbia pensato come un’opera destinata a riassumere e mettere ordine nel suo perenne agitarsi, nelle sue insistite fughe emotive. Il tutto, come sempre in questo regista, ruota attorno allo straordinario assetto interpretativo che ottiene dai suoi attori: Logann Antuofermo è Luc, Oulaya Amamra è Djemila, Louise Chevillotte è Geneviève e Souheila Yacoub è Betsy, tutti emersi dai corsi di recitazione che Garrel tiene in Conservatorio: anche in questo senso si tratta indubbiamente di un film di padri e di figli…