Prima di essere il mostruoso pazzoide armato di motosega con l’hobby dello scuoiamento umano, Faccia di cuoio era un ragazzo belloccio, mentalmente instabile ma tutto sommato predisposto ai buoni sentimenti, capace di amare e di discernere il bene dal male. In questo scarto tra psicologie opposte si inserisce il film dei francesi Alexandre Bustillo e Julien Maury, Leatherface, per mostrarci il percorso di mutazione del personaggio quasi nell’ottica di un distorto coming of agein cui la presa di coscienza del mondo assume le forme della follia e della violenza. Anche se, a ben guardare il risultato finale, la rilettura della genesi di questa memorabile icona horror finisce per scivolare in secondo piano rispetto alla descrizione di un universo sociale “sporco e cattivo”,che permette al film di brillare di luce propria nonostante le evidenti debolezze e la sua scarsa indispensabilità quale ottavo capitolo della saga e prequel dell’originale The Texas chainsaw massacre del compianto Tobe Hooper (qui produttore esecutivo),che nel ’74 aveva spalancato le porte a un modo differente di mettere in scena l’horror e le perversioni della società americana. Di quella forza dirompente e disturbante resta poco o nulla, ad eccezione di un certo sadismo esibito oltre l’eccesso e il politically correct (la sequenza del sesso necrofilo è parecchio sconvolgente) e lo sguardo ambiguo sulle istituzioni, che lo rendono decisamente più interessante rispetto all’episodio del 2013 – Non aprite quella porta 3D – che del film di Hooper era sequel.
Dopo un incipit crudo e violento, col piccolo Jed, futuro Leatherface, spinto dalla madre nel giorno del suo compleanno a uccidere un uomo in una frenesia omicida, si passa a un ospedale psichiatrico per ragazzi cresciuti in famiglie degeneri, e alla fuga di un gruppo di essi dalle imposizioni crudeli dell’istituto. Poiché i medici hanno sostituito i nomi reali dei ragazzi per nasconderne le identità, la sceneggiatura prova a giocare sull’incognita di Jed, lasciando che sia solo il finale a svelarci quale dei fuggitivi sia in realtà il bambino sottratto anni prima alla famiglia perversa dei Sawyer. Al di là di questo meccanismo prevedibile, che si traduce anche nell’appiattimento dello scandaglio psicologico dei personaggi, soprattutto di Faccia di cuoio, il film di Bustillo e Maury prosegue collezionando scene ad alto tasso di crudeltà e violenza facendo della fuga il processo di formazione di sangue del suo protagonista. Se nel mitizzare e rendere intrigante la nascita dell’icona horror Leatherface manca il suo bersaglio, è nella descrizione di una realtà e delle sue dinamiche malsane che riesce a incidere, a cominciare dalla macabra famiglia Sawyer che apre e chiude la storia, sempre in aspra collisione con un mondo istituzionale per nulla estraneo a soprusi e ingiustizie. In questo squilibrio valoriale, bene e male arrivano a confondersi e invertirsi: il secondo giace tra i camici dei medici senza scrupoli, e viaggia assieme ai distintivi di poliziotti corrotti o assetati di vendetta, mentre paradossalmente la sicurezza e l’affidabilità diventano i pilastri del gruppo familiare di Faccia di cuoio, nonostante l’estrema disumanità. In questo mondo senza morale, in cui impera la violenza e dove i mostri reali sono anche quelli più insospettabili, la vicenda umana e psicologica di Jed-Leatherface finisce così per perdersi tra le righe della sceneggiatura, concludendosi con un finale scontato che paga la necessità di riallacciarsi al film seminale di Hooper.