Sta tra la vita e la morte la vicenda de L’immortale, un po’ come l’arco narrativo a metà fra la televisione e il cinema, fra l’esperimento dello spin-off e il ponte fra la terza e la quarta serie di Gomorra (per dare un punto di riferimento si pensi al primo film di X-Files, che si poneva tra la quinta e la sesta stagione). Indipendente, ma non troppo, dalle vicende già narrate sul piccolo schermo, il film di Marco D’Amore è quindi duale come il suo protagonista: cerca l’orizzonte lontano della Lettonia in cui Ciro potrà magari ricominciare a vivere dopo i fatti della terza stagione tv, ma poi non può fare a meno di tornare al personale, agli eventi di quella Napoli che allungheranno la sua ombra fin lì, facendogli fare i conti con i debiti accumulati in un lontano passato. Il film serve infatti anche da prequel, per fare luce sull’infanzia del personaggio, consegnato alla vita, ancora neonato, e già segnato dalla morte della madre nel crollo di casa per il terremoto dell’Irpinia. Con quella doppia esperienza di vita/morte, Ciro sarà condannato a essere circondato dal vuoto, ma allo stesso tempo verrà percepito come un oltrevita, un “immortale” appunto, capace di cavarsela e sopravvivere in ogni situazione. Tutte le possibili linee affettive (di consanguineità naturale o acquisita) verranno perciò sistematicamente recise: persa la madre, Ciro si affida a un mentore, Bruno, che non riuscirà a fare il grande salto promesso e a dargli un’esistenza serena; il primo amore avrà una tragica fine, e anche il rapporto con i nuovi subalterni del presente mostrerà presto le sue crepe. Nel mezzo c’è il rituale della malavita, il propagandare una fratellanza sancita dagli interessi e altrettanto velocemente destinata a infrangersi di fronte ai bisogni del momento, o alle rivalità che serpeggiano sia in Lettonia che fra i protagonisti.
Tutto questo è raccontato con lo sguardo del D’amore regista e interprete, che ossequia l’afflato tragico della serie, cercando di darle una connotazione più spiccata, facendo il testo più suo, lavorandolo attraverso le piccole sfumature del corpo, in una figura per il resto come distaccata dagli eventi, rassegnata all’eterno perpetuarsi dei rituali criminali. La scelta dei flashback che intervallano le avventure del presente, diventa così un modo per ribadire come il punto d’arrivo fosse tracciato già dal principio, e riesce a fornire nuovi dettagli su un angelo del male che è anche vittima di un destino profondamente intrecciato. Sarà anche per questo, però, che il film è anche abbastanza “bloccato” in una natura fatalmente contemplativa, seduta. Cerca attraverso inquadrature avvolgenti e attente a isolare i personaggi nello spazio, di restituire il senso del vuoto del protagonista, ma in questo modo perde quel lirismo che pure vorrebbe ossessivamente cercare. Il che, naturalmente, lascia intatto il sospetto di un’operazione che, pur nella maggiore e ricercata “ampiezza” rispetto agli orizzonti più chiusi della serie tv, resti in ogni caso materiale per chi conosce e ama le puntate, che avrà più facilità a correlarsi con le dinamiche qui raccontate. Il pubblico occasionale o neofita, che magari si accosterà a questo universo con il film, potrebbe restare chiuso fuori. Forse questo è l’unico dualismo che L’immortale non poteva permettersi, ma in cui fatalmente in parte annega.