Cos’è uno zombi? È un fiorellino giallo. I gatti sono animali pericolosissimi, i più feroci, divoratori di carne, specie quella di bambini. Il mare è una poltrona come quella «che abbiamo in soggiorno», l’autostrada un vento sferzante, «una fica» – recita la risposta materna a una domanda inaspettata – «è una lampada grande. Esempio: la fica si è spenta e la stanza è diventata tutta buia». Fly me to the moon è una bellissima canzone del nonno che canta l’amore familiare. In Dogtooth (Kynodontas) di Yorgos Lanthimos – film vincitore del premio Un Certain Regard a Cannes 2009 e oggi, più di dieci anni dopo, distribuito in sala dal 27 agosto da Lucky Red – le cose stanno così. Due genitori e i loro tre figli, due sorelle un fratello. Vivono isolati, fuori dalla città. Un giardino, una piscina. Non hanno nomi, sono papà, mamma, sorella maggiore… Le cose, sì, hanno nomi, ma i significati sono altri. Solo il padre esce di casa, con sua moglie educa i tre giovani adulti che il mondo esterno mai hanno visto, di cui nulla sanno. Viene ingaggiata una donna per educare sessualmente il figlio maschio ma la scelta produrrà effetti imprevisti. C’è poi un altro fratello – che non vediamo, che in realtà non esiste – al di là della villa, a pochi metri di separazione. I tre provano ad entrare in contatto con lui, con la parola, lanciando cibo. Presto inoltre – annuncia il padre – la mamma darà alla luce due gemellini e un cane…
Un crudele, implacabile teatro dell’assurdo, la chirurgica frustrazione di ogni prospettiva minima spettatoriale, il rovescio in incubo quotidiano, e beffardamente normalizzato, banale – mettiamo – del cinema di un Wes Anderson. Non un film-manifesto, ma un referto. Sociale, antropologico, familiare, forse di un Paese, forse del suo futuro prossimo. Una realtà distorta, spersonalizzata, un duplicato insensato e ottuso, sinistramente grottesco e inquietante del mondo. Lanthimos non ride delle sue creature né ne è partecipe, sa solo vederle così. L’educazione genitoriale è una prigione, una segregazione dal volto severo e protettivo; i figli sono bambini, automi, animali, ma di una bestialità addomesticata, mai libera, Sono obbedienti, mansueti, macchine senza desiderio, mentre l’umano può manifestarsi forse solo nel seme della violenza, nella fuga (ma l’ultima inquadratura del film cosa ci sta dicendo davvero? Soprattutto: ci sta realmente dicendo qualcosa?). IL giardino è un misero palcoscenico, come il salotto tristemente addobbato a festa per l’anniversario di matrimonio di mamma e papà; la piscina è l’acquario dei fratelli. I corpi – nudi o non che siano – sono solo gabbie ulteriori, storie senza racconto, immagini neutre, è cancellato ogni slancio, ogni eros, tutto è meccanica ignorante, sciocca, insignificante. Si trovano soprattutto qui, i germi di The Lobster. Ed è inoltre da qui che il regista inizia ad avvalersi dell’apporto di Efthymis Filippou, con lui alla sceneggiatura anche in tutti i film successivi tranne che nell’ultimo La favorita (2018).
Curioso poi come, con il ripescaggio di Dogtooth e l’evento Tenet dopo infinite previsioni e attese, il cinema in sala in Italia, in questa estate prossima alla conversione autunnale, in quest’anno terribilmente disgraziato, con il futuro che presenta una fitta serie di incognite, si ritrovi a tentare di ripartire in contemporanea con due tra i registi oggi maggiormente rappresentativi – da posizioni differenti – proprio del peso del cinema, della sua forma tecno-simbolica, delle sue strutture. Due autori, cioè, Lanthimos e Christopher Nolan, tra loro diversamente – concettualmente e visivamente – neokubrickiani (l’ellenico da The Lobster in poi, ossia dal Lanthimos “internazionale” e delle star, lontano dalla Grecia dove il peso – in un contesto economico-produttivo molto debole – era un peso, come dire, quasi solo “applicato”, tutto risolto nel gesto ideologicamente, stilisticamente autoriflessivo, autorialistico). Dogtooth viene dopo Kinetta (2005) e sembra il gemello diverso, il movimento uguale e contrario a quello di Alps (Alpeis, 2011). È il film più disturbante e massimalista del “periodo greco”, ma forse anche il più rotondo, il più organico, il più connotato, il più esatto. Dieci anni dopo, a mondo cambiato, la famiglia sarà quella di Parasite (2019) di Bong Joon-ho. Ma sarà davvero un’altra cosa?