L’infinito epilogo: su RaiPlay Gli ultimi giorni dell’umanità di enrico ghezzi e Alessandro Gagliardo

Tutto l’amore che c’è. E l’ombra di una sconfitta, che si allunga sull’uomo ma salva la persona. Quanta dolcezza c’è in Gli ultimi giorni dell’umanità! Quanta paura e quanto desiderio. Quanto bisogno di lasciarsi scavalcare dalla vita per sprofondare nel gioco essenziale (e forse anche esiziale: l’apocalisse che ci salverà…) del vedere. Il catalogo della magnifica ossessione ghezziana è un tuffo nel vuoto che si spinge nell’infinita tensione del visibile e la scopre accucciata ad un passo da sé, proprio lì dove sta la vita che si vive. L’arco (narrativo?) si tende tra l’intimità dell’homemovie e l’assolutezza del guardare/vedere troppo, ovvero più nulla: tra il gioco ossessivo del filmare e filmarsi di enrico ghezzi e la visione panica, infinita dell’uomo dagli occhi a X-Ray Milland cormaniano. Il frammento dicotomizzato, notomizzato, armonizzato del blob fuoriorario ormai ha lasciato il campo al senso dell’esistere accanto alle immagini filmate: i gradi di separazione tra l’aura decaduta della citazione detournata e l’Aura (Ghezzi) che si offre con – bellissima! – dolcezza statuaria (emmeriana: Con aura senz’aura…) ai confini del visibile, dai confini della vita col/del papà (anzi “babbo”) autore… Magnifica ossessione filmica: filmare la vita come non fosse un film (quando sappiamo bene che la vita è film, anzi vorrebbe essere film/cinema insieme a noi), ma fosse un perenne risveglio, un continuo filmare il primo sguardo sul giorno, la prima luce che ci assale. Naufraghi di un ritorno (il veleggiare dell’incipit, il precipitare della navicella verso la terra) che nutre la nostalgia di un andare mancato, di un perdersi nell’orizzonte a vista d’occhio…

 

 
Che è un po’ la stupenda presunzione di questo assoluto zibaldone del visibile ghezziano, l’altro versante di questi Ultimi giorni dell’umanità in cui riecheggiano le tante “immagini ossessione” della sua prassi critica… Un po’ una chiamata a raccolta di schegge (mai) viste incise ormai nell’archivio condiviso che si erge come un affronto dinnanzi alla vecchia, teorica “introvabilità del testo filmico”: anni e anni di citazioni, ascolti, backstage, il gioco infinito con il farsi della nostra passione e del nostro sapere cinematografico… Il diario di una compagnia che ha condiviso l’utopia dell’essere attraverso il cinema. Perché, come dice Jean-Marie Straub, non si può imparare a vedere un film, lo si può vedere e basta…E infine l’ombra: della magnifica sconfitta, del precipitare nella e della Storia, emergere inconscio di una purezza della resa impossibile alla presenza assoluta degli eventi, al destino che si compie prima che tutto sia compiuto. L’Etna che erutta in un gioco straubiano negato (Schwarze Sünde), la materia nera della storia, dei fascismi, delle guerre, degli orrori riassunti nel grido annichilito del frammento ronconiano del testo di Karl Kraus. Un’ombra incontenibile e dolce nella sua materialità magmatica, l’infinito epilogo di un prologo che sta lì come un atto di fede nell’eternità della caduta: Gli ultimi giorni dell’umanità di enrico ghezzi e Alessandro Gagliardo.