Dopo l’inaugurazione con uno dei classici che fecero nascere il genere horror, Der Golem, Venezia ha chiuso con il primo horror del cinema maghrebino (e ci sarebbe da indagare su quello arabo). In un Festival che ha voluto coniugare generi e autorialità, non poteva starci niente di meglio del film fuori concorso che ha terminato, sabato scorso, la Settimana della Critica della 75.ma edizione della Mostra di Venezia. Ponte perfetto tra passato e futuro, con un film che questo ponte fa crollare, con un gesto quanto mai politico perché tutto racchiuso in scelte di stile e di evocazioni. Il regista dichiara esplicitamente di aver scelto questo progetto, come opera prima, per vantare con essa un primato, quello del primo film horror del suo paese. Non stupisce nemmeno che questo avvenga a ridosso della primavera araba, da un regista che si è formato negli anni della sua esplosione. Tanto più se questa è caduta nel buio e se il rapporto tra tradizione, identità, modernità e globalizzazione, non trovi alcuna forma di democrazia partecipata che ne guidi il processo. Nemmeno nel più occidentalizzato dei paesi maghrebini qual è la Tunisia, e di cui è testimone lo stesso percorso formativo di Abdelhamid Bouchnak, diplomatosi in una Scuola Superiore di Cinema e poi migrato a Montreal, in Canada, per completare la formazione dopo il premio nel 2008 come miglior giovane regista all’International Student Film Festival di Cartagine.
Il film è costruito intorno a un plot congegnato alla perfezione, con denouement finale per sciogliere anche il più piccolo snodo degli accadimenti e riportare tutto alla logica e alla razionalità. Una luce comunque sconfitta, paga solo di se stessa. Non c’è lieto fine, ma solo la soddisfazione di aver capito il perché e il per come. Il mistero è sconfitto, ma il suo potere si perpetua. Il film si chiude con alcune foto e una didascalia che ci ricorda la pratica della stregoneria e del cannibalismo di cui sono vittime i bambini nel Nord Africa. Le foto riaprono al mistero, non dandoci alcuna didascalia di esse, solo caseggiati isolati con poche tracce umane. Cronache di ordinario orrore, di cui la società araba non ha voglia di liberarsi. Tanto basterebbe a motivare l’interesse per questo film. Al contrario se qualcosa può mancare è la forza visionaria dell’horror, che si rinnova senza mai cadere nel ridicolo e con padronanza piena del linguaggio, ma senza originalità. Ci sarebbe piaciuta una dose in più, per farne un film di culto e sfondare i confini nazionali. Eppure plot perfetto e padronanza del genere, non sono il merito maggiore di questo film che si fa notare per il suo sguardo tutto liminare. La narrazione procede fluida, ma l’uso dei tagli obliqui, il decentramento continuo dei personaggi nello spazio carico di vuoti, il montaggio fluido ma non rispettoso delle banali leggi di continuità. Non si tratta solo di un esercizio di stile. Il film inizia con una forte e inspiegata scena iniziale di sgozzamento di una persona. Una scena notturna, dove percepiamo solo pochi necessari elementi. Un sotterramento da compiere, pochi uomini, un corpo per terra, un grande sasso su cui viene poggiata la testa, una lama poggiata sulla gola, la lama che scivola netta e il sangue che ricopre il gran sasso, il vomito di uno dei presenti, una donna che pulisce subito dopo il sasso, una grande sfera di pietra, con acqua e un panno per lavarlo dal sangue. Nell’antefatto, che non troverà alcun aggancio nella storia a seguire, solo una frase. L’uomo che esegue lo sgozzamento solleva la palpebra di un occhio alla vittima e dice: “la chiave è nell’occhio”. E la chiave per questi sguardi liminari è infatti l’occhio, dove è sempre nei margini del campo visivo che vivono fantasmi e visioni. Lo spazio che il regista con i suoi tagli costruisce è uno spazio vuoto, spesso bianco, spesso chiuso da pareti oppressive, con poche piccole finestre, oppure uno spazio in cui si stenta a entrare, con primissimi piani costretti nei bordi del quadro, quasi a voler conquistare al protagonismo civico anche i margini dove si insinua il mistero di un fuori quadro. Una razionalità insieme messa ai margini e desiderosa di occupare ogni spazio.
Dachra è anche un gioco di cerchi concentrici. In arabo significa luogo isolato, e si tratta di un piccolo villaggio dentro un bosco, un luogo negato, che gli abitanti della regione fanno finta di non conoscere e che riempie di leggende di stregoneria la cronaca. Un buco nero che è il punto cieco dell’occhio, esattamente al suo centro, ma dove non c’è più immagine. Un occhio per altro sempre isolato, sempre negato alla visione stereoscopica, con l’altro occhio ora coperto, ora occultato da uno sguardo traverso, per l’appunto liminare. Cerchi concentrici, dove la ragione è dentro un grande cerchio che va oltre i suoi confini e ne ha uno al centro dove tutto muore nel buio. Di certo Dachra meriterebbe di uscire dal cerchio del cinema nazionale e conquistare una grande distribuzione internazionale. Film autoprodotto, come i suoi protagonisti uniti dal desiderio di fare, così crew e attori legati al regista da una pratica continuata attraverso teatro e cortometraggi fatti insieme. La vitalità del cinema indipendente.