Quella di Luca Ferri è un’anomalia nel cinema italiano d’oggi. E di anomalie il cinema italiano ha bisogno. Autore ‘espanso’, Ferri, e orgogliosamente autodidatta nel praticare un cinema che sta dentro e oltre lo schermo tradizionalmente definito, filmaker che porta le sue immagini anche nei musei e nelle gallerie, cineasta nonché fotografo. E ‘marginale’ per la sua provenienza, bergamasco che afferma di occuparsi di “immagini e parole”, nella forma del racconto breve o del lungometraggio ‘corto’. Una filmografia del nuovo millennio (avviata nel 2011), ma pregna di memorie filmiche e letterarie di un passato continuamente da ri-scrivere. Una filmografia in progress. Infatti il suo lavoro più recente, Dulcinea (al festival di Locarno nella sezione Signs of Life, che ospita ricerca e sperimentazione), inaugura una trilogia con personaggi variabili ma con la costante del luogo: ambienti domestici, set esclusivi dei tre testi. La chiama, il quarantaduenne regista di Abacuc (con cui esordì, in bianconero, nel lungometraggio nel 2014, inserito dal curatore Massimo Causo nella sezione Onde del Torino Film Festival dell’anno successivo), “trilogia dell’appartamento”, abitata dalla solitudine dei personaggi e da una precisa idea di sguardo (per nulla mera questione tecnica), ovvero individuare per ogni film un supporto specifico: il 16mm (e il 4:3, nel caso di Dulcinea), il vhs e la videocamera digitale per i due successivi in fase di realizzazione.
Dulcinea. Atto primo. Perché il film si ‘installa’ nell’appartamento di una ragazza con la (falsa) staticità del palcoscenico, da smontare e ri-assemblare grazie al montaggio. Il cinema della frontalità ‘messo in scena’ da Ferri alterna camera fissa e in movimento, leggeri carrelli laterali e lunghi piani sequenza (fin dalla scena d’apertura con la giovane che dà il titolo al film, ma che non viene mai chiamata per nome in quest’opera di poco superiore ai sessanta minuti dove i dialoghi sono assenti, impegnata lentamente a struccarsi e cambiarsi i vestiti in bagno, davanti allo specchio del lavandino), inquadrature secche, brevissime, fulminanti nella loro dimensione di ‘nature morte’. All’interno di tale composizione visiva si muovono e immobilizzano due personaggi anonimi (il riferimento a Don Chisciotte e Dulcinea è consegnato alla sinossi o a un frammento di lettura ‘radiofonica’ finale, dove si citano anche il surrealismo e i comportamenti umani tesi alla sottomissione o alla deificazione – ‘spiegazioni’ infine non necessarie al termine di un testo che, proprio non esprimendole, rende chiare quelle appartenenze culturali e quelle dinamiche relazionali) che agiscono non solo in uno spazio ma anche in un tempo definito: un’ora. In un film che non segue una traccia narrativa convenzionale ‘tutto’, ovvero quel tanto che serve, è già delineato nella citata scena d’apertura: mentre la ragazza è in bagno, scorrono i messaggi nella sua segreteria telefonica, fra gli altri qualcuno che fissa un appuntamento da lei. All’ora convenuta si presenta un uomo che, vestendosi da domestico, comincia a pulire le stanze. Lei fa altro. Dopo un’ora, lui se ne va, le lascia dei soldi in una busta. Un altro uomo sta aspettando nell’ingresso.
Cinema dell’assurdo, quello di Ferri, surreale, fino al grottesco, abitato dall’ossimoro astratto/denso, da inquadrature inscritte nel silenzio che ‘pesa’ (improvvisamente rotto da una canzone, con funzionale effetto moltiplicatore dello straniamento, o da due inserti ‘radiofonici’, invece portatori di depistaggi troppo forzati), come ‘pesano’ i corpi e gli oggetti; abitato da personaggi verso i quali non si provano complicità, che non si parlano, che apparentemente si evitano, al massimo si sfiorano compiendo gesti quotidiani che, ‘denudati’, si fanno assurdi. Lei, ‘prostituta-benefattrice’, cambia abiti e movimenti per assecondare le fantasie dei clienti, è una ‘holy motor’ senza trasformismi esagerati il cui corpo, così come quello dell’uomo, ‘dialoga’ con gli specchi presenti nel bagno, nel corridoio, nella camera da letto. Specchi come ‘porte’ per aumentare la profondità della visione o per aprire delle ‘mise en abyme’ – perfetti nel rendere il ‘controcampo’ dei personaggi, la loro immagine ‘rovesciata’ (ben disegnando così l’elemento ‘sociale’ e esistenziale invisibile eppure opprimente).