Dopotutto, che sono io se non un collezionista di sguardi perduti?
Dai dialoghi di Lo sguardo di Ulisse
È dalla apparente contraddizione delle antinomie che nasce e fiorisce la dialettica proficua, il ragionamento utile a creare ulteriori derivazioni di discussione, a rimettere al centro del dibattito, in un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo, alcune questioni fondanti per una civile convivenza e per una democrazia vivente che non sia solo declamata a parole. È da questo benefico contrasto che, ad esempio, nel riguardare i due film che hanno aperto e chiuso il Trieste Film Festival, si potrebbero evitare, nei giorni dedicati ad una memoria sempre più in pericolo, gli scempi d’umanità che si stanno consumando in questi giorni contro una folla di immigrati che in Bosnia prova a varcare i confini con la Croazia per entrare in Europa. Ma non è perfino questo il problema. Il vero problema è che queste persone, nella solita loro gerarchia di bambini, donne e uomini, vengono obbligati a vivere all’addiaccio con temperature che raggiungono anche i 15 gradi sottozero. Si dirà questo non centra con il cinema. Crediamo, invece, che tutto centri con il cinema e soprattutto questo e soprattutto quando si parla di Underground di Emir Kusturica e de Lo sguardo di Ulisse di Theo Anghelopoulos, due film che vivono e fanno la loro comparsa in quel 1995, anno in cui si pose fine alla guerra di Bosnia Erzegovina che vedeva contrapposte le fazioni serbe, ancora rimaste nei confini della regione nonostante la proclamazione di indipendenza, e le formazioni locali per lo più musulmane e un misto di altre etnie, ma soprattutto religioni tenendo conto che tutto nasceva dalla convivenza fino all’epoca (apparentemente) pacifica tra i credenti delle varie confessioni. Se in quell’anno cruciale si chiuse questa territorialmente piccola guerra mondiale, che vide coinvolti più o meno segretamente potenze europee e non ed eserciti improvvisati o meno con più l’apparenza di bande armate e spietate, è anche vero che il totale conflitto che nacque dopo la dissoluzione della Jugoslavia sarebbe durato fino al 2001 e quindi dieci anni dopo il suo ufficiale triste avvio. Non sono molti quindi gli anni che ci separano da quei dolori che hanno lacerato il cuore di territori ad un braccio di mare dal nostro Paese e non sono molti, evidentemente, quelli che lo ricordano se oggi accadono i fatti, in quegli stessi luoghi di spietate carneficine, di cui pochi giornali parlano e pochi talk show si occupano (in verità nessuno, scorrendo la memoria volatile, ma lascio il beneficio del dubbio). In apertura un’immagine di Lo sguardo di Ulisse di Theo Anghelopoulos.
Tutto questo crediamo centri molto con il cinema, soprattutto con quello che amiamo, soprattutto con Underground e con Lo sguardo di Ulisse, un incipit e un finis terrae perfetti per ricordare quegli anni ad un ventennio – parola in sé pericolosamente evocativa – affinché la memoria si rinnovi e il ricordo non debba indurre ad una perpetuazione di quel male. I due film come dicevamo sembrano perfetti a sottolineare questi benefici effetti poiché nella loro fruttuosa diversità di registro, di narrazione e di intenti si integrano perfettamente in quella necessità e soprattutto volontà di partecipazione. Che Emir Kusturica dimostrava con il suo Underground, apparentemente giocoso e sgangherato film che metteva in scena, invece, un sentimento di rimpianto, uno sguardo feroce su ciò che era accaduto, una critica velenosa ad una nomenklatura avida e spietata oltre che colpevole di ogni male. Invece, dall’altra parte, con lo sguardo rassegnato e contemplativo di Theo Anghelopoulos, artista le cui radici classiche sembrano trovare nel suo Lo sguardo di Ulisse, ancora una volta pensieroso e intimamente sentito, le domande più che le risposte, come sempre, il tentativo di salvare qualcosa del passato che serva a salvare il mondo. Proprio in questa perplessa accezione ritroviamo quella opposizione antinomica, cosicché diventa Underground il film contemplativo, sguardo rassegnato su un Paese ridotto in macerie fisiche e umane, e Lo sguardo di Ulisse il film partecipativo e fattivo per qualcosa da conservare che valga per il futuro. In questa doppia opposizione, ancora più proficua, ancora più benefica per ogni dialettica, per ogni pensiero che debba ancora formarsi o per quelli che sono già in fieri, ancora una volta Alpe Adria, con il suo balcone aperto sull’Est d’Europa, ha colpito nel segno interrogando la storia, utilizzando l’arte di due registi imprescindibili per ogni storia del cinema, ma anche per il loro afflato umano con i fatti dei Balcani e ha posto con il cinema l’utile contraddizione che non pacifica e non mette a posto le coscienze, non gratifica e non giustifica. Ancora una volta l’arte del cinema diventa – prendendo a prestito le parole di Bonito Oliva – interruzione del pensiero, sua ostruzione e strumento per una sua nuova forma, per un nuovo pensare al presente, ricordando sempre il passato che ciclicamente, senza alcuna determinata frequenza, ma a volte dopo secoli, a volte, invece, a breve, si ripete con la sua ineluttabile violenza.
Non vi è dubbio che lo sguardo che oggi dedichiamo ad un film come Underground sia del tutto differente da quello che all’epoca della sua uscita ne caratterizzò i giudizi con un fiume di polemiche, dovute soprattutto al conferimento della Palma d’Oro al Festival di Cannes del 1995. Appare qui inutile riassumerle (ci vorrebbe il triplo dello spazio per dare onesto conto delle varie posizioni), ma per chi ne fosse interessato sotto il profilo strettamente politico-cinematografico può leggere l’ottimo resoconto di Giorgio Rinaldi su Cineforum 351 del 1996. Al film, fracassone e intemperante, baracconesco e clownesco, con personaggi, come sempre nel cinema del regista serbo-bosniaco (da qui le polemiche), tutti sopra le righe con una inflessione ad una sarabanda umana che diventa musica dello stesso tenore che avvolge l’opera forse più controversa, ma a suo modo anche più rischiosa, più coraggiosa di Kusturica, oggi va dato merito di aver saputo mostrare l’ipocrisia (così la legge il regista) sulla quale si è retta la confederazione Jugoslava. Tutto si risolve nelle metafore del film, per esempio le colpe di un tempo immobile che va sempre all’indietro, come nel sotterraneo bunker in cui sono (stati) costretti a vivere Nero e i suoi amici, da Marko e dalla sua Natalija, che nel frattempo hanno maturato ricchezze e potere. Metafore esplicite, quindi, quelle di Kusturica, diremmo impalcabili, ma senza entrare in quel ginepraio che è stata (ed è?) la questione balcanica nella quale nessuno è esente da colpe e forse, sotto il profilo intellettualistico, neppure lo stesso regista.
Non meno articolato e complesso, anzi più elaborato, è il percorso del film di chiusura del Festival Triestino, l’europeissimo Lo sguardo di Ulisse, che con il film del regista serbo-bosniaco condivide la durata, diremmo, danubiana e lo scenario qui non metaforizzato, come accade in Underground, ma reale, in un presente intrecciato con il passato, in una vicenda nella quale il cinema sembra farsi protagonista del ‘900 e nella quale il suo regista riversa quella autentica forma poetica della sopravvivenza e il suo sguardo nudo e perduto sui fatti, tanto da far diventare il film una sovrapposizione di storie e di personaggi, che in una specie di tempo circolare si ritrovano periodicamente per constatare solo il reciproco fallimento. Lo sguardo di Ulisse è un film in cui la guerra è invisibile, perché la nebbia e la neve sembrano coprirla, ma sono visibili gli effetti sugli uomini, sono visibili i residui di un’ideologia che è finita, senza che un’altra ne sia in arrivo. Anghelopoulos ha firmato un film che diventa Odissea di una speranza senza esito, muto colloquio con un futuro invisibile e del quale il cinema si fa testo unico per la trasposizione letterale di queste forme di sopravvivenza. Due modi di guardare la storia, due contemplazioni diverse, due partecipazioni differenti, ma quello che pare opposto si tocca con il suo diverso. Alpe Adria ancora una volta ci induce a ragionare su un mondo dove sono troppi, ancora oggi, gli sguardi perduti.