Lo puoi guardare come un presepio popolato di pupi e di bestiole, o anche come un tableau vivant scolpito nel suo sempiterno presente, fatto sta che il progetto berlusconiano di Paolo Sorrentino, per come già si offre nello step Loro 1, è la raffigurazione di un immaginario congelato nella sua astrazione antirealistica, condizionato proprio come l’aria che nell’incipit stecchisce la malcapitata pecora. Non c’è stacco tra la dolcevitale visione sorrentiniana, il suo decadente cullarsi nell’agonia eterna della grande bellezza, il fatalismo di uno sguardo gettato con senziente distrazione sulle umane sorti della modernità, e la concezione berlusconiana di un mondo liofilizzato e asservito al suo potere, la sua percezione performativa della realtà, l’organico equilibrio delle forze in suo possesso. L’ironia non basta a creare lo scarto tra l’autore e il suo soggetto, quando poi la posa in opera incede nella medesima torsione egomaniacale della realtà: è una condanna, per Sorrentino, ma non è un’accusa nei suoi confronti, nel senso che si ha l’impressione netta che questo nostro autore sia tanto prigioniero di se stesso quanto lo è (stato) Berlusconi. Non stupisce dunque che Loro (l’1 ma si può presumere anche il 2, almeno da quanto si intuisce dalle prime immagini diffuse via trailer…) si offra come un’opera così calda, sensibile, partecipe: un’ode in disonore del potere eseguita ad un passo dal sentimento di partecipazione per la solitudine della stella cadente. E non stupisce nemmeno che il film finisca per piacere, lasciando qualcosa che assomiglia a un sentimento nella svilita dolcezza con cui tratteggia questo pigmalione di se stesso, impomatato e immalinconito dalla narcisistica solitudine che coltiva. Non è cosa comune nel cinema di Sorrentino, solitamente incapace, per limite strutturale, di creare empatia coi suoi quadri da museo delle cere: la sua cifra stilistica, che si deve ovviamente rispettare in onor di maestria, si ferma al confine con quella vita di cui è tragicamente disinteressata.
Ed è per questo che applicata alla figura berlusconiana funziona tanto bene da produrre partecipazione: il Berlusconi sorrentiniano fa quasi tenerezza, è un uomo solo e innamorato, una divinità fuori dal tempo attorniata da putti e da puttane. Il potere, in questa prima parte, è un’aura che attira osceni moscerini: l’ex ministro Santino Recchia (Bentivoglio), che verseggia alla Bondi, e il faccendiere Sergio Recchia (Scamarcio), che traffica in coca e escort come Tarantini, svolazzano a debita distanza, desideranti e poco desiderati. Intanto sinuose donne fatali e studentesse adottate sono a portata di telefonino, sul cui display lampeggia un “Lui” che lo differenzia dal “Loro” con cui sono identificati i signori del potere. Sull’altare c’è la Veronica amareggiata, dispendio sentimentale da riconquistare, alla quale Berlusconi sacrifica il suo tempo, mentre guarda a distanza le donnette del faccendiere che fanno baldoria sullo yacht…Loro 1 si offre insomma come il lungo incipit di un melodramma in cui amore e perdizione danzano all’ombra del potente, sospeso in una stasi che galleggia sui lenti e lievi carrelli laterali con cui Sorrentino disegna tutte le inquadrature che si offrono posate allo sguardo dello spettatore estatico. Sguardo che ammira l’opera sorrentiniana tanto quanto il faccendiere Recchia di Scamarcio ammira il potere berlusconiano… Il film si trova poi nei contorni chiaroscurati della magistrale fotografia di Luca Bigazzi, spinto nello stupore con cui osserva l’umanità decaduta di faccendieri e politicanti mentre ironizza sulla corte dei miracoli che si avvita in balli su terrazze romane da manuale. Come il Cheyenne di This Must Be The Place, il Berlusconi di Sorrentino è al centro di un dramma vago, in cui investe se stesso di una missione inutile: riconquistare Veronica è forza sprecata, il suo potere si ferma dove inizia il diniego oppostogli da lei.