Abbiamo conosciuto Tairo Caroli nel 2009, tra i protagonisti di La pivellina. Lui aveva 13 anni ed era un ragazzinio già sveglio e pieno di ironia e il cinema di Tizza Covi e Rainer Frimmel si andava sempre più imponendo come il risultato di una riflessione profonda sulla realtà e di una scelta etica sui modi della sua rappresentazione. Ora, con Mister Universo si compie un ulteriore passo in avanti nell’idea di cinema documentario che si sovrappone al cinema di finzione, sgretolando finalmente e definitivamente la rigidità delle classificazioni, anche rispetto a La pivellina, di cui Mister Universo è una sorta di splendida divagazione. Otto anni fa c’era una storia da raccontare e da innestare nella vita quotidiana di una piccola comunità di circensi, che vive alla periferia di Roma. Una bambina sconosciuta e bisognosa di tutto veniva trovata da Patti e accolta nella sua roulotte. Si cerca la madre e, intanto, la donna, ma anche Tairo e Walter, costruiscono con lei un rapporto. Qui ritroviamo in parte quei luoghi e quei personaggi, ma altri se ne aggiungono per ampliare lo sguardo e allargare questo microcosmo di così profonda e semplice umanità.
Il ventenne Tairo fa il domatore, ma il suo lavoro è in crisi. Un leone è morto di vecchiaia, una tigre è troppo vecchia per esibirsi, un altro leone è diventato all’improvviso aggressivo e potrebbe mettere in discussione le prossime esibizioni. A questo si deve aggiungere che qualcuno è entrato nella sua roulotte e gli ha rubato l’unico talismano in cui crede, un ferro di cavallo piegato quindici anni prima da Mister Universo 1957, il leggendario Arthur Robin, primo culturista nero a conquistare questo titolo e che, dopo un’esibizione, regalò al piccolo Tairo il prezioso portafortuna. Impossibile stabilire dove finisca la realtà e inizi la finzione, perché questo spostamento accade più volte all’interno delle singole scene. Il viaggio di Tairo verso il nord Italia, ad esempio, è costellato di incontri e ritorni. Si cerca Arthur Robin, per avere da lui un altro “talismano”, ma si procede per tappe all’interno della vita del protagonista, attraverso periferie anonime di città invisibili, dentro la vita quotidiana di famiglie e gruppi di circensi. Gli amici, gli zii, il fratello di Tairo, lo accolgono, lo ospitano e raccontano ognuno il proprio ricordo di quell’uomo fortissimo. Tutto reale salvo qualche indicazione di percorso da parte di una sceneggiatura che semplicemente segna la strada e sta a guardare quello che può accadere. Ciò che interessa ai due registi nel loro quinto film è, ancora una volta cercare l’umanità, le energie positive che esistono e si manifestano, in modo sottile. Una ricerca fondamentale che mette insieme le persone davanti alla macchina da presa. Come se ci fossero due materie, due soggetti diversi: da una parte le persone, con le loro vite, i loro corpi, le loro esperienze nell’ambiente del circo di strada, dall’altra una storia, che appartiene loro, ma che deve ancora essere raccontata e vissuta. La ricerca che ne deriva è squisitamente formale e teorica e si concentra sull’equilibrio tra i vari passaggi “documentari” e quelli che rientrano nella struttura più tipica della finzione. Il punto è assistere allo slittamento dell’uno nell’altra, quando il primo si esprime attraverso un atto di messa in scena e la seconda affiora semplicemente dalle piccole cose accumulate. Eppure non si deve pensare ad un film sul circo o sulle esibizioni, che restano in fondo allo schermo, in piani lunghissimi e periferici allo sguardo. Quello che qui Tizza Covi e Reiner Frimmel riescono a compiere è uno studio introverso di persone e situazioni. Si disegna un cerchio e si resta al suo interno, in una preziosa naturalezza di gesti e parole. Girato in pellicola 16 millimetri in totale leggerezza di mezzi (curando direttamente le riprese, il suono e il montaggio) e dedicato a coloro che hanno perso il posto di lavoro a causa dell’avvento del digitale.