Ci sono pochi cineasti come Darren Aronofsky là fuori: una filmografia breve (appena sette titoli in quasi vent’anni), una coerenza tematica che fa rima con un gusto sfrontato e urticante per l’eccesso, una padronanza tecnica indiscussa per storie folli e presuntuosissime. E se questo non bastasse c’è anche il palese divertimento delle sue provocazioni nello scivolare tra i generi, passando dal dramma sulla dipendenza di Requiem for a Dream ai deliri mistici di cui era pieno L’albero della vita fino alla deriva biblica di Noah. Il nuovo Mother! non esaurisce il discorso, ma lo rilancia, scompagina le carte di chi pensava che, dopo la scheggia di umanissima empatia cui si inchinava lo splendido The Wrestler e l’intensità lacerante su cui danzava Il cigno nero, il regista newyorkese avesse trovato un suo particolare modulo narrativo, capace di stare maggiormente sui personaggi anziché sovrastarli nell’impeto delle sue rappresentazioni iperboliche. Al contrario, la nuova pellicola immerge senza freni la protagonista Jennifer Lawrence in una realtà da incubo: giovane moglie di un maturo scrittore in crisi (Javier Bardem), la ragazza si occupa della ristrutturazione della loro grande casa, salvo vedersi negare la quiete coniugale da una famiglia che si presenta all’improvviso. Le suggestioni ricordano vagamente quelle del bel thriller spagnolo El habitante incierto di Guillem Morales, con la casa che diventa territorio di conquista in grado di snocciolare nuovi spazi senza soluzione di continuità, estroflettendo un evidente disagio interiore circa il proprio e l’altrui, il dentro e il fuori, ciò che è noto perché lo si vive come di stretta appartenenza, e un mondo esterno che arriva a esigere attenzione.
In questa casa-corpo di cui la nostra protagonista avverte quasi le pulsazioni nelle intercapedini dei muri, le porte non sono mai realmente chiuse e le zone franche sono costantemente minacciate da un mondo estraneo che lei teme e ripudia, mentre il marito accoglie con gioia, in quanto fonte di ispirazione per le sue possibili narrazioni. E qui si giunge al punto nodale della poetica di Aronofsky: la Creazione in quanto potere in grado di modellare mondi e persone, e pertanto anche di metterle alle strette, distruggerle e cambiarle. Dopotutto, i suoi personaggi sono sempre al limite di una pulsione che li spinge ad andare contro la corrente nonostante tutto, salvo innescare al contrario devastanti reazioni a catena. Lo spazio da conservare e riconquistare è quindi esterno a una regia che sta quasi integralmente sul primissimo piano dell’attrice di Hunger Games, e crea in questo modo un “doppio mondo” che rende la casa-corpo organica eppure distaccata dal personaggio: la ragazza è la sua casa, ma al contempo ne è divisa stilisticamente e dai progressivi accadimenti, e così sopporta in prima persona le conseguenze del caso. Lo stesso vale per il ruolo di madre, che è pienamente suo, anche se il bambino diventerà l’ennesima pedina degli eventi. In ogni caso, lei cercherà di affermare il proprio ruolo restando però sempre una figura alla deriva. Tutte le storie dell’autore, in effetti, raccontano corpi che cercano di urlare la propria centralità rispetto a un mondo che li ritiene marginali e generano in tal modo una vertigine propedeutica all’atto Creativo. Ecco quindi Aronofsky offrire al suo micro-mondo la possibilità di diventare corpo che genera nuove forme e figure che arrivano a invadere in modo sempre più caotico lo spazio casalingo, seguendo una deriva grottesca e vagamente polanskiana in cui il gusto per l’assurdo e l’eccesso si rilancia nelle derive dell’autentico horror. L’ultima porzione del racconto corre a briglia sciolta, senza limiti che non siano quelli posti dallo spettatore indispettito da tanto sfoggio di toni e tecnica. Ma la soluzione apocalittica va interpretata semplicemente come un nuovo atto creativo con cui rilanciare la sfida, in un gioco di reiterazioni che è in fondo lo stesso del diluvio che arriva per cancellare l’umanità, salvo poi ricominciare il ciclo con un nuovo gruppo di superstiti scampati sull’Arca. In questo senso Aronofsky è tanto il Creatore che dispone e ridisegna, quanto il sopravvissuto che continua a portare avanti una personalissima idea di cinema e a polarizzare il pubblico fra chi apprezza la potenza espressiva e chi ritiene il gioco ormai esausto.