“Può succedere di tutto fuori da un cinema” dice il protagonista di Gli amori folli di Alain Resnais, mentre passeggia in un vicolo dolcemente illuminato dall’insegna cinematografica. In bilico tra sogno e realtà, nell’ebrezza gioiosa verso ciò che è e ciò cui si aspira. Non sorprende, allora, di trovare una scena simile in Mia madre di Nanni Moretti, con Margherita Buy che osserva la lunga fila di spettatori in coda davanti all’ingresso della sala. E tra i tanti volti ci sono anche facce note (la madre e il fratello) a riempire questa scena di lieve irrealtà. Tutto può succedere fuori da un cinema, dunque, per le mille strade che i film sanno aprirci, per le infinite convergenze che il cinema crea con la vita, degli spettatori e dei cineasti. È bello che Moretti, prima ancora che alla settima arte, renda omaggio a tutto ciò che vi sta intorno, mettendo continuamente a confronto il lavoro sul set con quello che è la realtà del quotidiano.
La regista Margherita sembra aver ingaggiato una lotta contro gesti, parole e atteggiamenti di pura finzione. Non si può filmare un dialogo in auto senza poter sentire la verità del momento e non si può vivere senza demolire certe rigidezze. In questo suo lavorio intimo e sommesso, s’insinuano i ricordi, le schegge di un passato trascurato, i segni di lontananze esercitate con eccessiva sicurezza. Si sgretolano via via i punti d’appoggio, si torna indietro per andare avanti. E così, nei giorni che precedono la morte della madre, le cose si confondono ai suoi occhi e i tempi si accavallano. Moretti, però, dissemina il suo film di piccoli segni, come fossero le briciole per non perdere la strada. Non ci sarà un percorso lineare di andata e ritorno ma frammenti che si incastrano in un andirivieni necessario. Come quando l’appartamento di Livia si allaga e lei si trasferisce a casa della madre. Come gli scherzi così reali dell’attore Turturro che, poi, non riesce a ricordare le battute, o le bollette che non si trovano e il senso di inadeguatezza di un film in costruzione ma senza respiro. E si ripensa a quella teiera sbeccata di La stanza del figlio. “Voglio tornare alla realtà” grida l’attore americano, chiamato a dare vigore ad una storia in cui nessuno crede, dove tutto è convenzionale, dai trucchi, agli abiti, alla scenografia, alle parole. Viene in mente a Palombella rossa, lo scivolamento continuo dei piani che qui ci viene restituito attraverso il punto di vista dolente di un osservatore più discreto che mai. È Giovanni, il fratello ingegnere di Margherita, che, a differenza di tutti gli altri, è immerso soltanto nella sua storia. Accanto alla madre, accanto alla sorella. Incarna l’invito a spostare lo sguardo, che in modo confuso esprime Margherita quando chiede agli attori di fare un passo indietro con il personaggio e uno in avanti con se stessi. Proprio lei che si sente chiamata a interpretare il nostro mondo, ma confessa di non capirci più nulla.
Fragilità messe a confronto in momenti diversi di una stessa vita. Dentro e fuori dalle finzioni. Si ripensa continuamente all’inizio, quando sul set si prepara la scena dell’assalto alla fabbrica da parte degli operai. Perché uno degli operatori si avvicina così brutalmente ai poliziotti che picchiano i manifestanti? Se ne lamenta la regista, come a voler dire che dalla tensione morbosa non nasce nulla di chiaro (“Ma tu stai con i poliziotti o con gli operai” chiede, infatti al suo operatore), ma neppure la riproduzione di schemi ormai irrigiditi può far bene alla reltà. Moretti elabora con sapienza un continuo scambio delle parti, mettendo al centro di questo girotondo la perdita e l’incapacità semplice di questa stessa perdita. La madre. “Mia madre” rappresenta il veicolo per scompigliare l’ordine e indurre all’introspezione, a rivedere il passato per rompere gli schemi. “Margherita, rompi almeno un tuo schema. Uno su duecento”, dice Giovanni alla sorella. Di questo avrebbero bisogno la nostra realtà e il nostro cinema, oltre a reimparare a vivere la sofferenza come fatto privato, proprio come fanno i suoi personaggi. Cinema che si fa intimo, quello di Moretti, nel momento stesso in cui allarga lo sguardo e cerca di cogliere un senso generale, anzi, proprio nel momento stesso in cui lo afferra e o fa suo.