C’è una diligenza, un carro a sei tiri (altroché i due del mito platonico… ma attenzione: sono tutti neri, uno solo è bianco!), che sfreccia nel paesaggio innevato del Wyoming. E c’è una posta sperduta nel nulla, una meta provvisoria, l’Emporio di Minnie, che scontorna ben presto in uno spazio astratto, nell’ipotesi di un confronto senza fine. La traiettoria e il circolo, insomma: il vettore, che segue la sua linea di pensiero, e il cerchio, che invece raduna e confronta le identità, le annulla in un insieme indifferenziato. Come è ovvio che sia, Tarantino fa pura teoria, il suo The Hateful Eight è un gioco astratto in cui la pulsione narrativa assume la concretezza della forma filmica, districandosi tra la drammaticità del kammerspiel e la sedimentazione del genere (western, ma anche horror…: citano La cosa carpenteriana, ma occhio anche a La casa di Sam Raimi…). La narrazione è schema di confronto con i personaggi, non tra i personaggi, mentre l’azione si dissocia dalla sua messa in scena e diventa l’istintuale esporsi delle figure al loro destino, come quel cristo innevato che giace sulla croce lungo la via da cui il film prende le mosse.
A differenza di Django Unchained, dove la caratura del protagonista definiva la scena complessiva, qui è la scena complessiva a definire il corpo diffuso dei personaggi. La disfunzione, di cui saranno tutti vittima, tra l’illusione di controllare il loro destino e la vertigine di affidarsi ciecamente ad esso, è quella che alimenta il gioco del film, scorticando i nervi della drammaturgia in atto: il cacciatore di taglie John Ruth può dubitare di tutto e di tutti per proteggere la sua preda da diecimila dollari, Daisy Domergue, sino al patibolo. Fatto sta che la traiettoria che segue è solo l’ipotesi di una storia destinata a cambiare, anzi che è già cambiata, come scopriremo nel flashback a venire… La trappola logica in cui Tarantino lo incastra è rigorosa e semplice e coincide col circolo degli otto piccoli pistoleri alle prese con le loro ragioni, gli interessi da tutelare, le libertà da riconquistare, le vendette da consumare. Non esci dal circolo degli “hateful” senza aver capito che lo schema si esaurisce in se stesso, che il crocifisso da cui Tarantino parte e al quale torna nel finale è l’emblema di una beffarda via crucis cui ogni figura in scena è destinata. Tarantino è diabolico, in questo, perché nella scansione per capitoli puntualizza il sospetto dell’ordine, laddove poi gioca liberamente con le funzioni che ha attivato. Ci sono otto figure in campo che dovrebbero esaurire la scena, ma in realtà sappiamo bene che non sono che delle ombre riflesse in quell’antro da un’altra realtà: ciò che viene prima ed è avvenuto altrove è ben più importante del classico qui ed ora del kammerspiel e la torsione che ci aspetta a due terzi, il flashback che riconnette il presente col passato, è solo un antefatto disfunzionale che ridefinisce la scena, la ridisegna per prepararla all’implosione finale.
Tutto sembra collocarsi in principio come una convergenza di interessi, il confluire di figure in un destino che le vede accomunate: Marquis Warren appiedato nella tempesta coi suoi tre cadaveri vuole solo un passaggio, Daisy Domergue è una specie di demone acquietato che aspetta solo di liberare la sua furia, persino il nuovo sceriffo di Red Rock, Chris Mannix converge provvidenzialmente garantendo il suo ingresso in scena in anticipo rispetto al luogo deputato… La linea retta dell’azione sembra seguire la volontà degli attori in campo, ma è solo l’apparenza, perché il cerchio è la vera perfezione e il circolo ne esprime la funzionalità narrativa: l’emporio di Minnie, vera e propria scena mitologica, Olimpo di perfezione dove ogni elemento è al suo posto (tanto da offrire a Marquis Warren la chiave di interpretazione degli oscuri eventi…), è l’antro delle idee che si ribalta nel suo opposto, una fucina infernale di ambiguità, segreti, apparenze, distorsioni di ruoli e illusioni… Le divergenze di interessi è il vero punto critico degli elementi in campo, la derisione dell’ordine celebrata da Tarantino nella schematicità di un ordito narrativo fatto di rispondenze tradite. Questo è un film che celebra le ambizioni in maniera ancora più netta di quanto faccia sempre Tarantino: si spinge oltre la sua forma circolare e la fa esaurire nel suo centro, nel punto di congiunzione e confusione di ogni destino. Non c’è prospettiva di fuga che non sia quel crocifisso innevato disperso nel nulla del Wyoming, al quale tutto torna immancabilmente.