In Tenet a più riprese Protagonista, mero personaggio-funzione come dice il nome antonomastico, dice a se stesso e a noi che non è sempre necessario sapere tutto perché un piano tenga (come suggerisce la password che gli viene consegnata all’inizio del film, cui dà il titolo, e che, come si trattasse di un videogame, può aprire le porte giuste o quelle sbagliate) o perché un’impresa (piccola o grande, privata o pubblica, come preservare un affetto o salvare il mondo) riesca. Anzi, l’ignoranza può rivelarsi l’elemento chiave per la tenuta del piano e la riuscita dell’impresa. Sarebbe un vero peccato contravvenire alla regola che sorregge il gioco di Tenet, che il gioco stesso dichiara a più riprese, svelando allo spettatore dettagli sulla trama del film. Un gioco narrativo che, come ogni racconto dell’era digitale, finisce per avere la narrazione come oggetto, facendosi meta-racconto, ovvero teoria della sua pratica narrativa: o meglio, teoria e pratica che si fanno insieme e sono metamodernamente inseparabili. Il presupposto teorico di Tenet è facilmente riassumibile ricorrendo alle parole di un grandissimo teorico della narrazione: «il tempo diviene tempo umano nella misura in cui è articolato in modo narrativo; per contro il racconto è significativo nella misura in cui disegna i tratti dell’esperienza temporale» (Paul Ricœur). Con questo film Christopher Nolan compie un ulteriore passo dentro gli abissi del tempo, che negli ultimi venti anni ha esplorato in lungo e in largo sondandone i risvolti psichici (la memoria e il sentimento: si pensi a Memento e Inception), storici (la guerra e l’eroismo: Dunkirk) e fisici (la relatività e i buchi neri: Interstellar). Il tempo scandagliato da Tenet, sia pure reso fisicamente coerente grazie alla rinnovata consulenza scientifica del premio Nobel Kip Thorne, sia pure addolcito da una sotto-trama di amore parentale e da una annessa sotto-trama sentimentale che resta una pura virtualità, sia pure galvanizzato dalla prodezza del Protagonista salvator mundi, è di fatto tempo narrativo.
Se allora il racconto è significativo nella misura in cui disegna i tratti dell’esperienza temporale e l’oggetto di quell’esperienza è il dispositivo narrativo che dà forma al racconto stesso, quest’ultimo diventa un vero e proprio rompicapo, la cui ragion d’essere è proprio nella sua tautologica circolarità e nella sua irrisolvibile paradossalità, come ci ricorda il titolo, prelevato dal centro del famosissimo quadrato del Sator (che dà il nome al cattivissimo Antagonista del film), un’iscrizione latina in forma di quadrato formato da cinque palindromi (vedi immagine sotto).
Lo stesso Nolan ha dichiarato: «Il bello della cinepresa è che vede davvero il tempo. Prima che esistesse la cinepresa, non c’era modo per le persone di concepire il movimento rallentato o quello invertito. Quindi, il cinema stesso è la finestra sul tempo che ha permesso di realizzare questo progetto. È letteralmente un progetto che esiste solo perché esiste la cinepresa». Tenet è dunque il cinema che racconta se stesso e lo fa in termini di esperienza temporale assoluta, depurata di ogni residuo di referenzialismo o pretesa di realismo.
Così, mescolando disinvoltamente IMAX, 35mm e 70mm, Nolan e il suo fido direttore della fotografia Hoyte van Hoytema provano a fare quello che nessuno ha mai fatto prima: scardinano la «formula post hoc ergo propter hoc, che potrebbe ben essere l’emblema del Destino, di cui il racconto non è infine che la lingua» (Roland Barthes), formula che fin dalle sue origini ha permesso/imposto al racconto occidentale di dedurre il futuro dal passato grazie alla confusione strutturale tra successione e conseguenza (ciò che viene detto poi è letto come causato da). Forzando con incredibili artifici acrobatici, meccanici, ottici e digitali dentro la singola sequenza e perfino dentro il singolo fotogramma il prima e il poi, il tempo che scorre in avanti e quello che scorre all’indietro, Tenet ci libera dall’«errore logico» di quella formula, ovvero da un pattern analitico ontologizzato mediante una pratica millenaria, liberando l’immagine dalla sua ancillarità secolare rispetto alla parola. Il film non racconta il tempo nel senso che lo rivela alla coscienza dello spettatore come catena di eventi (gnarus, da cui narrare), ma nel senso che glielo fa percepire nella sua essenza di movimento (kinema, da cui cinema): l’esperienza narrativa del tempo di cui dispone l’uomo contemporaneo è audio-visiva più che verbale, sensoriale più che logica, è energia di spostamento tra punti lontani nello spazio (audio-visivo) più che giustapposizione di punti nel discorso (verbale).
Nella tensione generata all’interno dell’immagine da prospettive spaziali e traiettorie temporali incomponibili e all’interno della colonna sonora tra la tenuità dei discorsi dei personaggi e la violenza asemantica del subwoofer cardiopalmico (nella splendida colonna sonora di Ludwig Göransson), nel movimento cognitivo che questa tensione innesca, sembra dirci Tenet, si gioca la posta della lingua del destino veicolata dai racconti mediali del nuovo millennio: la lingua non più scritta di una realtà in cui eventi in sé e eventi media(lizza)ti si mescolano con la stessa forza percettiva. Così Nolan celebra il potere della cinepresa da un angolo della storia in cui la cinepresa da sola sembra non bastare più, cercando uno spasmo continuamente crescente che vincola lo spettatore, se ne vuole provare il piacere o il disgusto, alla sala cinematografica. Insomma, mentre sottrae al cinema il suo dominio sul reale, Nolan prolunga la vita di questo medium obsolescente nel nuovo millennio dilatandone a dismisura le tecniche e la portata cognitiva. I suoi detrattori si chiedono se non si tratti di accanimento terapeutico. Noi ci chiediamo fin quando il genio di Nolan potrà restare confinato nel chiuso, abissale sì ma sempre angusto, della sala.