Non toccare il cielo con un dito: Wicked – Parte 2 di Jon M. Chu

Seconda parte conclusiva del dittico dedicato all’adattamento del racconto di Gregory Maguire, prodotto da Marc Platt, Wicked di Jon M. Chu traduce sul grande schermo il fortunato successo teatrale, scritto da Stephen Schwartz e Winnie Holzman, che debuttò a Broadway nel 2003. Un progetto cinematografico ambizioso che punta in alto, sfidando la gravità, ma privo di quella autentica magia che gli permetterebbe di toccare il cielo con un dito. Anche questo secondo capitolo, sul solco del precedente, ma in maniera più spiccatamente polemica e politica, si attesta come prequel revisionista del grande classico degli anni ’30, offrendo un nuovo punto di vista sulla vicenda, affidandosi al talento e all’hype di Ariana Grande e Chyntia Erivo e conquistando l’inossidabile fanbase. Abbandonate le atmosfere da coming of age al contrario e soprattutto prese le distanze dalla prestigiosa scuola di stregoneria Shiz, frequentata sotto l’ala protettrice della celebre Madame Morrible, nomen omen, il secondo capitolo del dittico amplifica la narrazione estendendola nel tempo e intrecciandosi con la vicenda originale di Il Mago di Oz senza rinunciare alla dimensione politica-distopica. Decretata la sua colpevolezza, Elphaba vive relegata nella foresta di Oz certa di essere guardata dagli altri come la Strega brutta-e-cattiva ma anche consapevole di essere diventata, suo malgrado, capro espiatorio dell’inconsistenza del Mago di Oz e, soprattutto, del successo dell’amica-antagonista Glinda, luccicante sì ma priva di quella autentica regalità che dovrebbe distinguerla come Strega bella-e-buona.

 

 
Così, se da una parte Elphaba si divide tra il fare i conti con questa idea demonizzante che conferma la sua condizione di famigerata Strega Malvagia dell’Ovest e la continua vocazione-lotta tesa a tutelare i diritti degli animali di Oz per svelare le menzogne del disonesto Mago (di fatto è lei quella buona, come si era compreso fin dal primo capitolo del dittico), dall’altra parte Glinda, ergendosi paladina di una giustizia assoluta e accettando il ruolo di simbolo che con la sua bontà dovrebbe irradiare il Mondo di Oz, non del tutto consapevolmente approfitta della propria condizione di privilegiata e si insedia nel Palazzo di smeraldo interessata ad ottenere sempre più consenso e approvazione. Se Elphaba mette in gioco tutta la sua forza e spontaneità smarcandosi come eroina atipica e decisamente moderna, Glinda si espone al forte condizionamento di Madame Morrible assumendo involontariamente il ruolo di burattino manipolato dal potere politico, pedina-oggetto che influenza le masse, rassicurandole. Il musical ai tempi dei millenials e della polarizzazione, alla ricerca di una collocazione, in un’epoca di riscoperta dei generi, in bilico tra patinato effetto pop e rigurgito populista ma anche immerso negli affetti profondi, seppur esposto alla superficie del giudizio. C’è tutto questo anche in Wicked 2 e c’è anche di più, a partire dall’idea di guardarlo come un film dedicato al nostro oggi, sul nostro tempo, pensato per abitare lo sguardo di chi qui dentro riesce a specchiarsi e ritrovarsi; un film sull’oggi anche per come offre la sua risposta lucida-lucente, e confezionata a puntino e quindi prevedibile, rispettando tutti i criteri di trasposizione e osservando scrupolosamente dosaggio e ingredienti di una ricetta dal risultato garantito, che non può e non deve deludere Broadway e la fanbase, nonostante gli evidenti rischi legati alla transizione dal palcoscenico al grande schermo.

 

 
Dietro al successo dell’operazione c’è ovviamente Platt che già nel 2003 produsse il musical originario di Broadway, e da questa clamorosa esperienza si è ripartiti: la vicenda del musical originario è liberamente adattata dal romanzo di Gregory Maguire Strega – Cronache dal Regno di Oz in rivolta (1995): a tutti gli effetti prequel de Il mago di Oz, racconta il vissuto drammatico della detestata, verde, cattiva strega dell’Ovest e della sua amica/nemica, rosa e sbrilluccicante, la strega Glinda. Il libro di Maguire offriva una riflessione sulla natura della cattiveria e sulle circostanze che determinano il corso degli eventi e l’avvenire dei soggetti della scena umana; il musical adotta il revisionismo del punto di vista, semplificando e concentrandosi sul rapporto di attrazione e repulsione di due opposte e contrarie espressioni della natura umana: essere viste e detestate come l’outsider dalla pelle verde, studiosa e dotata di grandi poteri magici (Elphaba, Cynthia Erivo, già intensa interprete di Aretha Franklin in Genius) o essere amate e esaltate come creature irresistibili, un po’ inconsapevoli e un po’ spericolate, vittime e artefici di una celebrità da prime della classe che lascia sole (Glinda, Ariana Grande che sguazza abilmente nella parte) rinchiuse nel guscio delle proprie inscalfibili sicurezze e arroganze.

 

 
Così, tra esaltazione glam e ricerca del kitsch, mentre ricodifica un leitmotiv del contemporaneo che si interroga sulla dialettica degli opposti, l’entità del vero e le origini del mito (che coinvolge tanto Barbie quanto Wonka), il progetto di Chu tenta di riformulare e riamalgamare la composizione molecolare del musical originario strizzando l’occhio ad un immaginario facilmente riconoscibile che si muove dalla saga di Harry Potter e Animali fantastici fino ad arrivare e specchiarsi nei numeri musicali di High School Musical senza abbandonare mai del tutto i riferimenti cinematografici più espliciti legati alle trasposizioni del testo originale di Baum che risvegliano incubi indelebili come quelli legati al ghigno dell’inarrivabile e inquietante interpretazione di Margaret Hamilton (Il mago di Oz) ma prendendo le distanze, almeno sul piano scenografico e politico, dalla versione blaxploitation del 1978 di I’m magic (The Wiz) di Sidney Lumet, altro indimenticabile titolo ispiratosi alle serie di racconti di Baum. Se il primo capitolo sorprendeva per l’assenza di personalità e per la mancanza di vivacità senza riuscire a veicolare un autentico incontro con la diversità, tradendo l’assenza di leggerezza e soprattutto la meccanicità di una magia che impattava (male) con la rigidità di un didascalismo opprimente anche nelle migliori intenzioni, stucchevole, involuto, sgraziato e squisitamente consumabile e se si rimaneva con l’impressione di avere assistito alla dimostrazione di un esperimento sociale più che alla rappresentazione di un vissuto cinematografico, un insieme di scene dove gli affetti soffrivano gli effetti restando schiacciati da un copione culturale omologante, privo del sogno e evasione, in questo secondo capitolo qualcosa sembra muoversi.

 

 
Wicked: For good prendendo ispirazione dalla canzone dell’Atto 2 in cui si racconta come le due streghe siano cambiate grazie alla loro amicizia, al netto delle fragilità, offre alcune soluzioni narrative convincenti (la parte romance più efficace di quella ironica e grottesca) e mette in gioco più di un elemento cinematografico interessante (come, per esempio, il mancato punto di vista di Dorothy) oltre a confermare le validissime performances delle due interpreti protagoniste. Nonostante sia evidente l’intenzione di rivolgersi ad un fanbase sempre più riconoscibile e circoscritta, la volontà di questo secondo capitolo è ancora più radicalmente politica: il Mago di Oz è un dittatore, a sua volta manipolato dalla fanatica Madame Morrible, a sua volta attratta da una brama di potere oscuro che trasmette a Glinda, ignara di essere manipolata. Analogamente, trovandosi esiliata in seguito a scelte politiche discriminatorie, al contempo Elphaba si sente attratta da altre forze e matura quel senso di giustizia intravisto nella prima parte: rubato l’Orripilario, si sente nemica dello stato e lotta al fianco delle creature di Oz, sfruttate dagli interessi del malvagio e ignavo Mago.

 

 
E allora ecco il punto: se risultava evidente il fatto che il primo film conducesse lo spettatore davanti alla frantumazione della fiaba originaria, con enfasi e piglio drammatico, finanche a tratti serioso, il secondo esplora le conseguenze generate da questa frantumazione provando a offrire risposte alla domanda più urgente: come si sopravvive a questi pezzi? Come fare a ricostruire un’identità privata? Al cuore di questo interrogativo troviamo quindi un elemento che espone ad una riflessione valida sempre, ma in particolare oggi: se è vero che al mondo non ci troviamo per scelta e senza avere scelto le condizioni di partenza in cui vivere, come scegliamo di restare al mondo? Quale è il modo in cui scegliamo di vivere? Forse, prima che mirare alla trattazione di un discorso sull’inclusività, ad interessare per davvero è l’autodeterminazione delle protagoniste, elemento che pilota il senso dell’intero progetto. Beninteso, non a farlo a volare e non a fargli toccare il cielo con un dito perché, concludendosi nell’unico modo possibile, cioè rispettando la scansione e la verità del musical di Broadway, Wicked – Parte 2 saluta il proprio pubblico con un atto di sacrificio, sì, che anticipa però un lieto fine che ne depotenzia il significato, quasi annullandolo. Non potrebbe esserci scelta diversa, giusto tenersi vicina la solida fanbase e inevitabile non tradire Broadway, tuttavia una sensazione di incompiutezza resta, considerate le premesse che miravano in alto e a sfidare la gravità che qui, invece, tra una traslazione da un medium all’altro, tra un dovere mantenere un sostanziale equilibrio (ambiguamente neutrale?) pare galleggiare in aria con tanto di paracadute. È vero, la caccia alle streghe fa emergere la volontà nelle streghe di indagare il proprio futuro ma, in fin dei conti, siamo sicuri che Wicked non verrà ricordato soprattutto per la sua eccentrica e sfacciata patina sgargiante? Nonostante il messaggio positivo del pezzo forte dell’opera Because I knew you, I have been changed for good e nonostante l’audace tentativo di porre al centro la riflessione sullo sguardo: come siamo guardati dagli altri? Come guardiamo la nostra immagine? A chi appartiene, quindi, l’identità?