Non tollerare l’oblio: Familiar touch, di Sarah Friedland

Il film della regista e coreografa Sarah Friedland è stato girato all’interno e con la collaborazione di Villa Gardens Retirement Comunity di Los Angeles, una RSA di livello nella quale viene ricoverata Ruth Goldman (Kathleen Chalfant). Ruth soffre di demenza senile o di Alzehimer, è per lo più lucida ma talvolta si perde. Nell’incipit, ad esempio, dopo avere scaldato il pane nel tostapane lo ripone nello scolapiatti. Il figlio Steve decide quindi che è arrivata l’ora per la madre di una sistemazione più sicura. Nella residenza la donna che pensa di andare in hotel, finisce con il fare prevalere la sua socialità e familiarizza con il personale e sa mettere a frutto le sue doti di cuoca. Ma il tempo passa e quando Steve deve sgomberare la casa, tutto del suo passato lo avvicina ancora più alla madre che però, via via, si fa sempre più assente. Sarah Friedland lavora sul silenzio e su una meditazione interiore che favorisce la progressiva elaborazione della mutazione della sua condizione. È questo il carattere del film che non intende suggerire facili sentimenti di compassione e commiserazione, l’obiettivo è un altro e, parafrasando il titolo di un recente film, ribalta la prospettiva per cui la morte è un problema dei vivi. Qui la malattia non è un problema familiare, ma un problema di Ruth che la vive e la interiorizza. Il tono dimesso del racconto, la bravissima Kathleen Chalfant che dona alla sua Ruth l’eleganza innata del suo personaggio, la ragionevolezza dell’intelligenza e la sfrontatezza necessaria per affermare il proprio diritto ad un’esistenza che prescinda dalla malattia, fanno il resto.

 

 

È per queste ragioni che Familiar touch – laddove il tocco familiare è proprio di Ruth – con il suo carico sopito di dolore per la lenta deriva di un’esistenza che si comprende essere stata ricca, sembra quasi adagiarsi sullo schermo per provare con la consolazione della memoria a rendere meno duro il presente. Friedland non indaga sugli effetti che ricadono sulla famiglia a causa della malattia dell’anziana protagonista, quanto, invece, riflette su Ruth attraverso Ruth che invade lo schermo e se ne appropria con la sua elegante intolleranza verso il compatimento e il suo austero rifiuto di interpretare il ruolo di malata. Lo sguardo è interiore, il dialogo è intimo, tutto è interiorizzato e il mondo di Ruth e della sua mente che scivola verso l’oblio è tutto visibile in quell’invisibile racconto che la regista compie con una sicurezza di mano. Ruth è il suo stesso racconto e il film è il tentativo, largamente riuscito, di dare la prospettiva di un adattamento di questa donna in età, che diventa sempre più consapevolmente convinta della sua malattia.

 

 
Il cinema dell’esordiente e giovane regista americana, di origini ebraiche, che ha indagato anche sulle sue vicende personali per realizzare il film, conserva il piccolo incanto di quella interiorità che non appare mai superficiale, mai ricercata, ma istintiva e naturale. Le sue sospensioni del racconto sono corde tese di violino che sembrano raccontare la ricchezza di un passato. Le poche apparizioni di Steve, il figlio che vive il segreto dolore per la malattia della madre, ma che al tempo stesso sa consolarsi con la felicità del ricordo, diventano quasi esaustive del racconto, più nei silenzi che nei pindarici dialoghi tra madre e figlio. Un film che è diventato anche un laboratorio per i residenti della Casa di riposo, coinvolti durante le riprese con un lavoro preparatorio durato cinque settimane. Con questi caratteri Familiar touch – che si attesta anche come un esperimento collettivo di resistenza alla malattia – diventa un film sull’adattamento progressivo, ma sempre critico su una nuova condizione, che qui è l’invecchiamento. Ruth è dignitosa nel vivere questa mutazione progressiva e se subisce le decisioni altrui riafferma in altro modo la sua vitalità. È questa una ardita complessità che Sarah Friedland sa dominare e donare integra ai suoi spettatori.