La negazione del melodramma, o forse il suo sommo grado di astrazione: l’amore in assenza del corpo amato, la privazione del desiderio, il bisogno del possesso e la libertà impossibile… La moglie di Tchaikovsky di Kirill Serebrennikov (in Concorso a Cannes 75) è il febbrile registro di un’ossessione amorosa, quella che ha legato Antonina Miliukova a Pyotr Tchaikovsky in un matrimonio che, nella Russia di fine ‘800, fece non poco scandalo. Nozze mai consumate (ma non di facciata), fuga del compositore dal tetto coniugale poche settimane dopo l’unione, l’ombra dell’orientamento omosessuale di Tchaikovsky ben nota a tutti (ma rigettata per anni dagli organi putiniani, che a lungo hanno rifiutato di finanziare il film): Serebrennikov si colloca nell’ottica del delirio d’amore della sposa rifiutata, che ama subito senza essere davvero amata, cerca di fuggire da una condizione di miseria familiare e proietta i suoi sogni nella vita coniugale con un uomo celebre e ricco, disposto a farsi affascinare dalla dolcezza e remissività del sentimento della donna, finisce per sposarla e ben presto si sente soffocare. E allora torna al suo circolo maschile di artisti e musicisti, a quei giovani uomini di cui si attornia e che preferisce, come sanno bene tutti, anche nella sua stessa famiglia. Antonina, la moglie, resta sospesa sul suo sentimento e sul suo sogno, mantenuta economicamente da quell’uomo che però rifiuta di accusare formalmente di tradimento, unico modo all’epoca per ottenere un già difficilissimo divorzio.
Serebrennikov sta accanto a lei: La moglie di Tchaikovsky è esattamente quello che il titolo annuncia, la storia della moglie di Tchaikovsky, ma anche qualcosa di più: l’affresco storico di una scena sociale che fluttua in libertà sulle ispirazioni, sugli orientamenti, sulle fughe e le prigionie dell’anima. Il film soprattutto sta nel dialogo impossibile tra l’ossessione d’amore di Antonina, la definizione sociale del suo status (di moglie e di donna) e la vaporizzazione del ruolo dell’artista: Serebrennikov dichiara di essersi fatto ispirare dalle deliranti e magnifiche biografie di musicisti girante negli anni ’70 e ’80 da Ken Russell, ma il delirio che racconta è quello della moglie abbandonata, il suo assoluto e irrinunciabile bisogno di essere la compagna del musicista. E si spinge sempre più in quel delirio, articolandolo in sottotracce che scorgono strati sciali derelitti, nutrendolo dei fantasmi erotici rimossi della sua femminilità che dialogano con i fantasmi erotici immaginari del marito. Ancora una volta Serebrennikov fa cinema partendo da stati alterati di coscienza e trova una definizione liminare del filmare, sospesa tra l’architettura corale, ampia e fluida dei piani sequenza e l’intrusione mentale onnivora e implosiva della protagonista. Ci sono armonia, lucidità e derive liriche in questo film che avrebbe meritato in Serebrennikov il coraggio di trattenere un po’ la durata, magari rinunciando a qualche sequenza virtuosistica che trattiene il ritmo.