L’amore è una questione di confini, sembra dire Valentina Maurel in Tengo Sueños Eléctricos, il suo film d’esordio col quale ha vinto nel Concorso di Locarno 75 il premio per la Regia e quelli per le interpretazioni femminile (Daniela Marín Navarro) e maschile (Reinaldo Amien Gutiérrez). Trentaquattrenne dal Costa Rica, Semaine de la Critique e Cinefondazion di Cannes alle spalle, un piglio visivo che sa tenere insieme la materialità dei luoghi, la permeabilità degli spazi, la dinamica delle figure e l’emotività dei personaggi: Valentina Maurel racconta una storia familiare che sta tutta sulla definizione del limite in/valicabile che separa e unisce le emozioni di chi è unito dall’amore. Nel caso specifico una figlia e un padre, la sedicenne Eva e quell’uomo dal quale la madre si è separata e che lei guarda come uno specchio del suo stesso smarrimento di fronte alla vita. Il bisogno di unione, di tenersi insieme, infranto da una separazione che non riesce a liberare nessuno, fuorché la madre, che ha fretta di svuotare la casa per ristrutturarla. Eva fa resistenza passiva, un po’ come il gatto che continua a orinare in ogni angolo per marcare il territorio. Un po’ come il padre che, nella decisiva scena iniziale, scende dall’auto e sbatte più volte la testa violentemente contro la porta del garage, che non vuole aprirsi: Eva osserva la scena dall’auto, la madre insiste affinché lei e la sorellina non guardino, la ragazza che scende dall’auto e va ad aiutare il padre con la fronte sanguinante…
Tengo Sueños Eléctricos è tutto giocato su questa dinamica: definizione di confini, gestione della separazione degli spazi, la forzatura di una indipendenza che vorrebbe negare il legame senza riuscirci. Perché poi Eva è attratta da quel padre che ha la struttura psicologica di un ragazzino, è andato a vivere a casa di un amico, lascia che la figlia cerchi un appartamento per loro due, ma non sa bene con quali soldi pagare l’affitto. Intanto gira per feste nei salotti degli amici, partecipa a sedute letterarie in cui non ha il coraggio di leggere i versi che ha scritto. Eva staziona al suo fianco, forza la sua presenza, attratta più da quell’insicurezza del padre che dal legame in sé. Se crescere è definire i propri spazi, Eva sta cercando di crescere attraverso il padre, che spazi non ne ha e forse non ne vorrebbe nemmeno. La vita intanto chiama, i desideri urgono e Eva tenta anche di trovare il coraggio di diventare lei stessa adulta, forse di innamorarsi, di sicuro di fare sesso, anche se solo con l’amico che ospita il padre: piccolo tradimento, che però farà infine crescere l’uomo…Valentina Maurel costruisce questo intreccio relazionale con uno sviluppo a macchia d’olio, lasciando che i confini si espandano in maniera irregolare, seguendo le minime increspature dello spazio. Il film ha una flagranza e una immediatezza molto interessanti, perché seguono l’istinto di una messa in scena di prossimità, poco studiata e molto sentita. C’è un lavoro di disposizione della macchina da presa sulla scena che segue la logica delle emozioni e soprattutto definisce proprio la sostanza del film, il suo essere un dramma giocato sulla struttura psicologica degli spazi di ogni personaggio. Viene in mente la prima Lucrecia Martel, anche se Valentina Maurel lavora più sullo sviluppo delle psicologie che sull’irrazionalità dell’istinto delle figure in campo. Gran lavoro sui due interpreti, Daniela Marín Navarro, che è Eva, e Reinaldo Amien Gutiérrez, che è il padre: bravissimi e giustamente premiati.