È un po’ come il gioco del limone galleggiante messo sul bancone del bar da Eli per raccogliere le mance: la moneta non può proprio restare in equilibrio, è destinata fatalmente a cadere. Così è la realtà al cinema, sta in bilico sulla vita solo per poter cadere nel film, nelle sue strategie drammaturgiche, nella porzione di messa in scena che resta per forza aggrappata alla finzione. Ecco, Sole cuore amore di Daniele Vicari è un ottimo esempio di cosa può fare un film italiano oggi con la realtà: trattarla da equilibrista, compensarla delle carenze di immaginario che fatalmente le appartengono ogni volta che si realizza un destino. Come quello di Eli, la protagonista, pendolare romana in transito tra quattro figli e marito disoccupato e un posto al banco di un bar di periferia, dove porta un sorriso e tanti clienti, ma non riceve troppe attenzioni da chi le paga lo stipendio. Destino sacrificale, troppo lavoro per un cuore debole, epilogo scritto nella notizia di cronaca che ha ispirato a Vicari questo dramma postproletario. In realtà sulla bilancia del film c’è anche il contrappeso di Vale, quasi una sorella di Eli: ballerina e performer più tormentata dell’amica, segnata dall’amore violento di un uomo che non riesce a lasciare e da un rapporto conflittuale con la madre. Vale è l’ombra della felicità incompiuta di Eli, una specie di controfigura che Vicari allestisce con generosità per articolare un dramma che altrimenti rischiava di apparire troppo “neorealista”: la Ragonese (che pure è brava) come una moderna Magnani sbattuta dalla vita ma a testa alta.
E infatti utilizza la presenza di Vale proprio in chiave performativa, attingendo alle coreografie estrose che mette in scena nei nightclub in cui si esibisce per accendere di cromature acide la fotografia di Gherardo Gossi. Non che l’universo di Eli sia raffigurato con tonalità stinte, ché il progetto visivo di Vicari è esattamente contrario all’idea di un realismo appiattito sulla realtà, lavorando su un istinto filmico dinamico. Sole cuore amore cerca i contrappunti, elabora gli interstizi del dramma principale (quello di Eli) per definire la traiettoria di una lettura del sociale e del quotidiano da far apparire, piuttosto che da mostrare. L’eccesso di scrittura di certi dialoghi e la dinamica interna della sceneggiatura si sentono nel film tanto quanto si vede la fotografia e si percepisce il recitato. Ma questo va anche bene, perché Vicari sappiamo bene che sta nell’idea di un cinema pieno e consapevole così come lui sa bene che ad andare oggi per strada – anzi sui tram, come diceva Zavattini – la narrazione di sé messa in scena dalle figure che si incociano nei bar, alle fermate dei bus, nei parchi, è parte integrante della loro stessa realtà interiore. Sì, insomma, la finzione sta al reale in un rapporto 1:1… E se un film come Sole cuore amore funziona, lo fa proprio nella misura in cui rinuncia alla realtà, per raccontarla. Quel che resta è un melodramma a tinte piene, come dire: reminiscenze da De Santis…