Alla deriva, i protagonisti di Resta con me lo sono da sempre e in modo profondo. Perché nell’idea centrale di questo film c’è il desiderio di raccontare il punto di vista di un uomo e una donna rispetto alla vita e al bisogno di libertà che li alimenta. Con il suo tredicesimo film da regista, infatti, l’islandese Baltasar Kormákur sceglie una storia vera che sa caricare di significati esistenziali e riflessioni semplici ma efficaci sulla vita e sulla forza della sopravvivenza, sia che si tratti di Tami, californiana da poco giunta a Tahiti, sia che si tratti del più esperto Richard, appassionato velista inglese. La vera storia del naufragio di Richard Sharp e Tami Oldham, dunque, avvenuto nel 1983 e prima di ora raccontato nel libro di lei sulla sua terribile disavventura dal titolo Red Sky In Mourning.
Una storia che inizia nel segno più pieno della libertà e della liberazione dei protagonisti (dalla famiglia, dalle cponvenzioni, dagli obblighi di certa vita sociale), che li sorprende al loro arrivo a Tahiti. E alla dogana Tami dimostra con allegria e sorpresa di non aver pianificato il suo immediato futuro. Non sa quanto si fermerà sull’isola, dove andrà dopo né cosa farà. Ma l’incontro con Richard farà di lei una donna ancora più consapevole e, alla fine del film, più forte che mai. Non solo, dunque, la ricostruzione della tragica avventura di Tami Oldham, 24enne ribelle e inquieta, assetata di conoscenza, che viaggia senza meta e quasi senza sosta, ma anche e soprattutto la sua maturazione interiore e l’osservazione partecipata dell’essere umano, sottoposto a dure prove di sopravvivenza, spinto ben oltre i limiti, in una sfida continua della natura indifferente o matrigna. Quando i due innamorati salpano da Tahiti per riportare l’Hazana a San Diego, uno yatch di ricchi committenti inglesi, credono semplicemente di poter guadagnare abbastanza per le future spedizioni nei mari di tutto il mondo.
Dopo Contraband, Cani sciolti e soprattutto Everest, per Kormákur non è stato difficile entrare in sintonia con questa storia da far vibrare sulla pelle degli attori, ed è importante la scelta coraggiosa di girare al largo delle isole Fiji su due semplici imbarcazioni per suggerire e sottolineare l’idea della precarietà e della ristrettezza in cui si trovano i personaggi per quasi tutto il film. In questo modo l’imbarcazione, colpita gravemente dall’uragano Raymond in mezzo all’Oceano Pacifico, appare ancora più instabile e minuta. Spazzata dal vento e distrutta dalle onde, ha perso la sua imponente eleganza. Lo scenario è essenziale, il racconto procede a singhiozzi, saltando tra presente e passato, mentre lo sguardo del film si fa via via più inquietante, come a volerci preparare all’epifania finale, cui si arriva attraverso la progressiva accelerazione del ritmo. Dalla frenesia alla rarefazione, fino ad una dimensione di relativa distanza che subentra nel finale. In questi quarantuno giorni alla deriva, si è vissuta una vita intera, lasciando che la realtà venisse rivelata via via dalle allucinazioni e interpretata da una solitudine impossibile da dimenticare.