Zhang Yimou ama la Cina e dopo i fasti del wuxpian in cui l’idea di spettacolo era connessa a quello di una narrazione eroica, sullo scenario di un mito tra combattenti volanti e duelli infiniti, lo scomodo regista, torna ad una storia che ridisegna un differente profilo del Paese e la sua macchina da presa guarda la Cina con un altro occhio, quello di una dissidenza ragionata, con l’intenzione di raccontarla attraverso un realismo viscerale, ma anche con una benevolenza quasi da neorealismo zavattiniano. Una storia divisa tra umorismo e dramma collettivo, che si stempera e diluisce nell’infinita bellezza degli immensi scenari naturali, nelle dune disegnate dal vento e dalla corona delle catene montuose, fondale eterno a quello sguardo che al confronto balena in un lampo. In questo paesaggio ceruleo e sabbioso Zhang Yimou demolisce il mito della Cina eroica negli abiti poverissimi dei suoi personaggi, in quelle strade polverose del deserto. One second è una storia quasi invisibile, abitata da personaggi invisibili, che solo la sua macchina da presa poteva cogliere. Un film che perpetua il tempo utilizzando la pellicola come dispositivo della memoria, come sostitutivo dell’immaginazione. Zhang Jiusheng è riuscito a fuggire da un campo di rieducazione. Non vede la famiglia da molti anni e soprattutto sua figlia. Si imbatte in una ragazzina che ruba un rullo di una pellicola da un trasportatore. La insegue, tra scontri ed equivoci, tra piccoli drammi e racconti familiari, tra attrazioni e respingimenti tra i due si arriverà a capire che Zhang Jiusheng sta cercando di vedere al cinema il Cinegiornale n. 22 nel quale, qualcuno gli ha scritto, compare anche sua figlia.
Nel villaggio dove è finito proietteranno proprio quel cinegiornale. Se ne occupa come sempre Mr. Cinema, una specie di boss culturale che tiene in pugno i suoi compaesani affamati di cinema. Zhang Jiusheng sembrerà finire male, ma una piccola reliquia di celluloide con i due fotogrammi che riprendono la figlia potrebbero alleviare le sue sofferenze. Zhang Yimou ha lavorato per raffinare il suo cinema e lo dimostra con questo film già pronto da tempo, che avrebbe dovuto essere in corsa alla Berlinale 2019. Venne misteriosamente ritirato dalla competizione e scomparve per due anni. è riapparso alla Festa del Cinema di Roma 2021, arrivando ora nelle sale italiane con un doppiaggio al limite del sopportabile (ci si domanda quando i distributori italiani capiranno che il pubblico è sufficientemente alfabetizzato per vedere un film con i sottotitoli). One second diventa una riflessione sul regime cinese con un occhio benevolo che però non tace di quella violenza del sistema che la storia ci ha raccontato e che il regista sa arricchire di quella componente quotidiana e popolare che fa crescere il disagio e fa comprendere i riti censori che hanno accompagnato il film.
Ma forse la partita che il film vuole giocare è quella trasversale riflessione sul tempo del cinema e della sua percezione. Nella piccola sala rurale si proietta finalmente e in esclusiva per Zhang Jiusheng il cinegiornale con l’immagine fuggevole della figlia quattordicenne. Zhang Jiusheng la guarda per cento volte, in un anello infinito di passaggi che colmano il vuoto della vita mancante, del pezzo assente. Il cinema sa essere surrogato nobile di un’esistenza negata o lontana. Zhang Yimou va ancora più a fondo e interiorizza il tema della memoria e della sua materialità. L’oggetto, la pellicola, Heroic Sons and Daughters il film di Wu Zhaodi del 1964 pezzo forte del cartellone, diventa il riflesso della storia del protagonista che cerca la figlia, in un rispecchiamento quasi da estasi e il fotogramma del cinegiornale, con l’iconica immagine della figlia, si fa peso specifico della memoria materiale, simulacro del ricordo, tassello dell’intaglio vuoto del puzzle della vita di Zhang Jiusheng. La materialità dell’oggetto e la materialità del ricordo e l’immagine che diventa soggetto sostitutivo. È così che nel film si moltiplicano e si intrecciano i temi cui fa da collante quello ulteriore della impraticabile paternità, che getta la sua luce, come accade sempre, sulla cattiva o mancata paternità di uno Stato-Paese verso i suoi cittadini. Zhang Yimou indaga con sapiente circospezione sull’argomento, iniettando nel rapporto apparentemente antagonista tra i due protagonisti un umorismo sottile e bonario, ma raccontando al contempo la necessità e l’ennesimo vuoto della figura paterna.
One second è racconto densissimo di piste occulte e narra la consistenza della materialità di un cinema scomparso che si oppone alla fragilità di quello, oggi, smaterializzato. Un cinema digitale che non è vero che eternizzi la memoria, quanto piuttosto smette di diventare oggetto di culto o segreta trasparenza di una perduta rappresentazione. Temi sovrapposti e raccordati in una storia nella quale si alternano divertimento e dramma, assetto sociale e rudimentale, ma invincibile, passione per il cinema, malinconia e rivalsa, memoria e presente. Zhang Yimou apre scenari insospettabili e apre un nuovo corso al suo lavoro di regia in cui, ottimizzando il rapporto tra forma e contenuto, recupera anche il desiderio di cinema che vuole tornare a immergere la sua macchina da presa dentro le storie popolari, dentro una morale universale sulle tracce di un novello Zavattini in cui la pellicola rubata diventa suppletivo controcanto della biciletta rubata. Zhang Yimou torna ai suoi personaggi, alle sue Qiu Ju di La storia di Qiu Ju, Wei Minzhi di Non uno di meno, ai racconti più intimi e personali, distante da ogni immediata spettacolarità del cappa e spada cinese, ricco di segni umani laddove il cinema svolge il suo ruolo di costruzione di un insostituibile immaginario, cogliendo il frame in cui la vita della pellicola si sostituisce a quella reale, in una eternità che dura protetta dalla sabbia del tempo.