La fonte è il Poema a fumetti di Dino Buzzati, che reimmaginava in una chiave contemporanea il viaggio di Orfeo nell’aldilà per salvare Euridice. Da lì parte Virgilio Villoresi per il debutto registico nel lungometraggio, dopo un paio di decenni spesi tra corti, spot e videoclip animati. Ma il percorso di Orfeo non è soltanto un viaggio nell’amore e nell’altrodove alla ricerca della perduta Eura, quanto nell’artificio stesso che genera l’immagine, attraverso un insieme di tecniche che fondono live action, animazione e illusionismo (nel senso proprio di tecnica per produrre un’illusione), recuperando strumenti e modalità oggi perdute. Il cammino di Orfeo è per questo ammantato di un furore che è innanzitutto nostalgico: così come l’uomo (che non a caso è artista, suona in pianobar) insegue l’amore perduto, così Villoresi fa con un’idea di cinema che è strumento e artigianato concreto di altre epoche, lungo una direttrice che è insieme di tipo tecnico e temporale. Si parte letteralmente dall’origine, dai giochi di luce nel buio del pre-cinema, per poi approdare all’animazione in silhouette e all’effetto Schufftan dell’era del muto.

La visualità corteggia una certa fascinazione chiaroscurale da film di Josef von Sternberg anni Trenta, disegnando motivi geometrici sui volti, per poi trascolorare naturalmente nella stilizzazione e nell’uso espressivo degli spazi da noir anni Quaranta, fino a lampi da giallo anni Sessanta (le scene nel locale in cui suona Orfeo, per scelte cromatiche non sfigurerebbero in un film di Mario Bava). Più che personaggi, le figure che attraversano il viaggio sono ombre su un telo, silhouette di un sentimento che guida tutta l’operazione e invitano lo spettatore ad abbandonarsi a un’idea di visione i cui confini sono incerti, la realtà è essa stessa un sogno mentre il viaggio forse è immaginario. Certo, tanto è il metodo così concentrato su sé stesso e tipico dei film-visione, che Orfeo corre il rischio paradossale di perdere un po’ il senso della meraviglia. Ma è importante comprendere come l’afflato nostalgico percepibile nel romanticismo onirico sia innanzitutto filologico, anche e soprattutto rispetto al modello.

Buzzati, infatti, nel raccontare la storia già nota, imbastiva un sistema di riferimenti in cui ogni disegno rimandava a un’immagine, quadro o arte preesistente e così fa anche Villoresi. Orfeo riesce infatti a creare un insieme compatto e coerente, sia rispetto a sé stesso che al cinema amato, che ai pregressi dell’autore nel campo del cortometraggio (visibili sul suo canale YouTube, insieme al backstage del film). L’aspetto più interessante di Orfeo è dunque la sua capacità di lasciar percepire un lavoro (r)affinato e di unirlo a una visione propria che si fa immersione onirica in un universo guidato dai sentimenti, ma articolato attraverso la ragione. Un film costato anni di lavoro per ritrovare le sue tecniche pre digitali, arcaiche e “semplici”, e capace perciò di percorrere strade poco battute dal cinema italiano (in particolare quello contemporaneo), le cui strategie appaiono sempre di più corto respiro. Per tutto questo un film prezioso, destinato con ogni probabilità a durare nel tempo.
Le immagini sono di Sara Costantini


